Deus Ex Mankind Divided – Recensione

Lo so che siete qui per la recensione di “Deus Ex: Mankind Divided”, ma lasciate che prima vi parli di un’altra cosa. Vedrete che alla fine c’entrerà con il gioco, o almeno sarà utile alla discussione che voglio farne, quindi vi prego di avere un po’ di pazienza e di restare con me mentre vi racconto la storia dell’apartheid e di Nelson Rolihlahla Mandela, rivoluzionario, primo presidente nero della Repubblica Sudafricana, primo presidente eletto dopo la fine dell’apartheid (la segregazione sistematica dei neri) che lui aveva contribuito a superare. E terrorista.

Deus Ex Mankind Divided – Recensione: Mandela, apartheid e terrorismo

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La popolazione del Sud Africa aveva e ha una composizione piuttosto complessa. Dopo la Seconda Guerra Mondiale neri e meticci erano la maggioranza della popolazione e la minoranza bianca si divideva in coloni inglesi e afrikaner (francesi, belgi, olandesi o tedeschi ugonotti che parlano afrikaans, una lingua derivata dall’olandese). Mentre i coloni inglesi erano più concilianti verso la popolazione nera gli afrikaner spinsero sempre per una politica razzista venendo poi influenzati dal nazismo nella teorizzazione di quello che chiamarono “apartheid“, formalmente un modo per consentire alle due componenti etniche del Sud Africa di svilupparsi indipendentemente mantenendo le loro tradizioni. Dopo una serie di leggi che limitarono rappresentanza politica e diritti, dal 1936 i neri non parteciparono più alle elezioni insieme ai bianchi e votavano invece in liste separate alcuni loro rappresentanti (le leggi sulla rappresentanza politica di neri e persone di colore variarono diverse volte negli anni, sino sostanzialmente a dissolversi).

Le leggi dell’apartheid sudafricano nascono nel 1948, quando il Partito Nazionale vince le elezioni. L’apartehid separava neri e bianchi nelle zone abitate da entrambi (per esempio, neri e bianchi avevano posti separati sui mezzi pubblici), istituiva i bantustan, territori solo formalmente indipendenti in cui i neri venivano costretti a trasferirsi perdendo anche la cittadinanza sudafricana, proibiva i matrimoni interraziali e il sesso interraziale, obbligava a registrare la propria razza, vietava il comunismo (a cui l’opposizione dell’African National Congress era vicina), vietava ai neri di entrare in alcune zone riservate ai bianchi senza un apposito lasciapassare, divideva servizi e strutture pubbliche in servizi per neri e servizi per bianchi. Nel 1960 le leggi sull’apartheid diventarono inoltre valide per tutti i cittadini non bianchi, compresi gli asiatici (in parte, poiché Giapponesi, Coreani e Taiwanesi erano considerati “bianchi onorari” per ragioni politiche). L’apartheid era il modo in cui una classe dirigente bianca, razzista e timorosa di perdere il potere si difendeva dalla maggioranza della popolazione, dagli indigeni del Paese che aveva invaso e sottomesso ora trasformati in una massa di braccianti agricoli a basso costo.

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Mandela brucia il suo lasciapassare. Foto da Wikipedia Commons

Nelson Mandela, studente di Legge, si unì all’African National Congress nel 1942 e, due anni dopo, fondò Youth League allo scopo di opporsi al regime sudafricano. Quando nel 1948 andò al governo il Partito Nazionale e inizio l’apartheid Mandela partecipò attivamente ai lavori dell’African National Congress e dell’assemblea popolare del 1955 (in cui furono fissati i principi della lotta all’apartheid) e aiutò con il suo studio legale i neri che non avrebbero potuto sennò opporsi alle angherie del potere. Le proteste lo portarono a un primo arresto con l’accusa di tradimento, dalla quale venne assolto, ma quando nel 1960 il regime trucidò i manifestanti disarmati a Sharpeville e rese illegale l’African National Congress Mandela appoggiò la lotta armata. È questa una parte della storia di Nelson Mandela che viene spesso rimossa dalla memoria collettiva. La lotta contro l’apartheid viene ricordata come una lotta pacifica, e Mandela viene eletto simbolo della resistenza non violenta ai regimi, ed eppure egli partecipò in maniera più che attiva ad azioni e a gruppi che oggi definiremmo “terroristici”. Nel 1961 diventò comandante dell’ala armata dell’African National Congress (“Umkhonto we Sizwe“, MK) ala armata da lui stesso fondata, e in seguito coordinò azioni di sabotaggio contro l’esercito e il governo progettando attacchi e creando un vero e proprio gruppo paramilitare.

“All’inizio di giugno del 1961, dopo una lunga e faticosa valutazione della situazione in Sud Africa, io e qualche collega arrivammo alla conclusione che, siccome nel Paese la violenza era ormai inevitabile, sarebbe stato poco realistico e sbagliato per i leader africani continuare a predicare la pace e la non violenza in un tempo in cui il governo rispondeva alle nostre richieste pacifiche con la forza. Non fu una conclusione a cui arrivammo a cuor leggero. Avvenne solo quando tutto il resto aveva fallito, quando tutti i canali di protesta pacifica ci erano stati sbarrati. Solo allora decidemmo di intraprendere forme violente di lotta politica e di formare Umkhonto we Sizwe. Non lo facemmo perché avevamo desiderato questo percorso, ma solo perché il governo non ci lasciò altra scelta.” [dal discorso di Mandela nel 1964 durante il processo per sabotaggio]

Per l’organizzazione di Umkhonto we Sizwe Mandela finì in carcere nel 1962, grazie a informazioni che la CIA fornì al governo sudafricano. Immagino che parte della rimozione che ha colpito questi anni dell’opera di Mandela dipenda proprio dalla volontà dell’America di far dimenticare che sono stati gli USA a farlo arrestare. Gli USA erano vicini al regime sudafricano che limitava la penetrazione di Russia e comunismo nella regione, mentre l’African National Congress era vicino agli ambienti sovietici e Mandela e l’African National Congress furono ufficialmente considerati “terroristi” dagli Stati Uniti d’America sino al 2008.

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Durante i primi venti anni di carcere Mandela non rinnegò la lotta armata e, anzi, quando negli anni 80 gli venne offerta la libertà condizionata in cambio della rinuncia all’uso della violenza egli rifiutò. Dal carcere Mandela restò attivamente coinvolto nella lotta contro l’apartheid, e l’African National Congress continuò intanto le sue azioni di guerriglia e, proprio negli anni 80, uccise un totale di 130 persone in una serie di attentati che coinvolsero sia ufficiali governativi sia civili. Molte più persone rimasero ferite in questi attacchi.

Negli anni successivi, però, Mandela iniziò a cambiare la sua posizione, iniziò a puntare non più sulla violenza e sulla vendetta ma sulla riconciliazione. Intanto cresceva la pressione internazionale sulla Repubblica Sud Africana perché l’apartheid arrivasse alla sua conclusione e perché Mandela, diventato un simbolo, fosse liberato. Negli anni 80, a causa della progressiva decadenza dell’Unione Sovietica, il regime sudafricano e il suo apartheid non erano più considerati utili alla lotta contro il comunismo, le priorità degli stessi Stati Uniti d’America cambiarono e anche gli USA si unirono alle sanzioni internazionali. Nel 1990 Mandela venne liberato, l’African National Congress fu riabilitato e iniziò ufficialmente lo smantellamento dell’apartheid e della sua legislazione. Nel 1994 Mandela divenne presidente della Repubblica Sudafricana, ruolo in cui guidò il Paese definitivamente fuori dall’apartheid e creò la Commissione per la Verità e la Riconciliazione che garantì, tra le altre cose, l’amnistia per chi avrebbe confessato i crimini compiuti per ordine del passato regime. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione riconobbe i meriti dell’African National Congress nella liberazione del paese dall’apartheid, ma non ne nascose i crimini.

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Segregazione nella stazione ferroviaria di Cape Town. Foto da AAM Archive, Bodleian Library

“L’ANC, nel corso del conflitto, ha contravvenuto ai Protocolli di Ginevra e fu responsabile di gravi violazioni dei diritti umani. […] delle tre parti coinvolte nel conflitto, però, solo l’ANC si pose come obbiettivo di rispettare i principi dei Protocolli di Ginevra e, nella maggior parte dei casi, di condurre la lotta armata in accordo con le legge internazionali umanitarie.” ( dal “Truth and Reconciliation Commission of South Africa Report”)

[Breve bibliografia digitale: South African History OnlineThe Washington Post, Nobelprize.org, Nelsonmandela.org]

Deus Ex Mankind Divided – Recensione: L’Apartheid meccanico

Alla fine di “Deus Ex: Human Revolution” Hugh Darrow, antagonista del gioco e membro degli Illuminati (i nemici della serie), fa impazzire i Potenziati del mondo sfruttando un chip da lui stesso impiantato. Il risultato della follia dei Potenziati, che il protagonista Adam Jensen riesce infine a fermare, è lo sterminio di cinquanta milioni di persone e l’inizio di una violenta regolamentazione e segregazione di tutti coloro che possiedono innesti artificiali. In questa “umanità divisa” inizia “Deus Ex: Mankind Divided”. Sono nel 2029, sono ancora Adam Jensen, ora membro dell’Interpol a Praga, e una serie di attentati terroristici, forse per mano dell’ARC (Coalizione per i Diritti dei Potenziati), rischia di portare la situazione al punto di non ritorno, alla promulgazione dell’Atto per il Risanamento Umano, una legge che sancirebbe la definitiva segregazione dei Potenziati in città separate dai “Naturali” (in bantustan).

Durante “Deus Ex: Mankind Divided” e durante la sua promozione gli sviluppatori insistono continuamente sulla similitudine tra Potenziati e neri. Uno dei trailer del gioco si intitola “Apartheid meccanico”, nel gioco posso origliare personaggi non giocanti dire frasi come “Ho sentito che le loro donne sono selvagge a letto”, la metropolitana ha vagoni divisi per viaggiatori Potenziati e Naturali e in una concept art vedo la scritta “Augs lives matter” (“Le vite dei Potenziati contano”), chiaro riferimento all’attuale movimento per i diritti dei neri “Black Lives Matter”, nato nel 2013 dopo l’assoluzione di George Zimmerman, accusato dell’omicidio di Trayvon Martin. È stato oggetto di discussione se il modo in cui questi temi vengano trattati da “Deus Ex: Mankind Divided” sia rispettoso, ma il parallelo tra Potenziati e neri è forzato, e la lettura fatta da Eidos Montréal della lotta contro l’apartheid è semplicistica e idealizzata.

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In “Deus Ex: Human Revolution” i Potenziati sono descritti come una ricca élite che preme per un Rinascimento Transumano, una nuova e audace fase dell’evoluzione dell’umanità. La stessa corporazione per cui Jensen lavora in “Deus Ex: Human Revolution”, le Industrie Sarif, per ottenere i fondi necessari non teme di sviluppare per conto dell’esercito armamenti e Potenziamenti pensati prima di tutto per uccidere. I Potenziati di “Deus Ex: Human Revolution” vestono con abiti eccentrici, in uno stile che va dal barocco di Alexander McQueen ai volumi scultorei e cyberpunk di Gareth Pugh, mentre i Naturali restano radicati in un’epoca passata che è persino vintage, a volte più vicina agli anni 60 che al mondo attuale. Questa minoranza privilegiata di Potenziati è stata manipolata e usata, e il risultato sono stati cinquanta milioni di morti e un comprensibile timore del resto della popolazione mondiale verso chi possiede innesti artificiali.

Per quanto il trattamento che i Potenziati subiscono sia vile, abusivo sino all’esagerazione, il rischio che i loro poteri costituiscono per il resto delle persone è reale e dimostrato. I governi hanno il dovere di evitare che una cosa del genere si ripeta, i Naturali hanno il diritto di voler essere protetti dai loro governi. La segregazione dei Potenziati non ha niente a che vedere con l’apartheid sudafricano: i Potenziati sono in parte vittime dell’incidente che ha sconvolto la Terra, ma (nolenti) ne sono stati gli autori, sono consumatori ricchi, ingannati e pericolosi. I neri sudafricani erano una popolazione invasa, senza colpe e tenuta sotto controllo da una minoranza bianca che non voleva condividere risorse e potere.

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La polizia attacca una manifestazione studentesca. Foto da AAM Archive, Bodleian Library

Anche la rappresentazione dell’ARC è estremamente banalizzata rispetto alla sua ispirazione più evidente, cioè l’African National Congress (ANC). In “Deus Ex: Mankind Divided” uno dei miei compiti è scoprire se dietro gli attentati c’è la Coalizione per i Diritti dei Potenziati, ma questo, per gli autori del gioco, vuol dire scoprire se l’ARC è innocente o colpevole, se sono una organizzazione pacifica da salvare o un gruppo terroristico da condannare. “Deus Ex: Mankind Divided” sembra però avere le idee molto chiare su dove sia il torto e dove sia la ragione: l’ARC è cattiva se è usa la violenza ed è buona se non la usa. Ridurre a questo la lotta dell’ARC vuol dire ridurre a questo anche la lotta di Mandela e dell’ANC, vuol dire sostenere l’arresto di Mandela e, anzi, diventare nel gioco il possibile responsabile di quell’arresto. Non c’è mai veramente l’idea che possa essere giudicato giusto, seppur tragico, opporsi con la forza a un regime che in certi momenti arriva a sparare a civili disarmati, a imporre coprifuochi con leggi marziali e a rapire i Potenziati per rinchiuderli in bantustan solo perché trovati senza tutti i complicati permessi necessari. Secondo la mentalità di “Deus Ex: Mankind Divided” la Resistenza italiana è stata una condannabile azione terroristica.

Non sono stupito di questo. Dopo l’11 settembre e durante la guerra contro quello che i telegiornali descrivono come “il sedicente Stato Islamico” il terrorista non merita più empatia, non ha più diritto ad avere motivazioni giuste e sofferte. Chi usa la lotta armata al di fuori del monopolio statale sulla violenza deve essere in cattiva fede (magari guidato da una cospirazione internazionale), oppure deve essere un povero ingenuo evidentemente affetto da disturbi mentali (in “Deus Ex: Mankind Divided” succede). Il terrorista è oggi l’Altro, il nemico. È facile dire che l’Altro è in “Deus Ex: Mankind Divided” il Potenziato, ma il Potenziato non esiste nel nostro mondo, è una allegoria che, confusa e vaga come è, può voler dire tutto, si carica di ogni rifiuto e quindi di nessun rifiuto. Ma il terrorismo esiste, il terrorismo è il nostro Altro nella realtà e l’Altro non merita alcuna simpatia in “Deus Ex: Mankind Divided” quanto non la merita nei nostri telegiornali.

Deus Ex Mankind Divided – Recensione: Gameplay e stealth

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La meccanica di “Deus Ex: Mankind Divided” rispetta in qualche modo questa stessa visione. È una coerenza che apprezzo: il gioco premia continuamente la rinuncia alla violenza, anche se mi dà pure nuovi strumenti per combattere in modo aggressivo grazie a una serie di Potenziamenti sperimentali misteriosamente installati nel corpo di Jensen tra l’inizio del gioco e la fine di “Deus Ex: Human Revolution”, durante mesi di cui è stata persa memoria. In “Deus Ex: Mankind Divided” finire una missione senza uccidere nessuno dà punti esperienza bonus per sbloccare e migliorare i miei Potenziamenti, finire una missione senza essere mai neanche visto dà ulteriori vantaggi nell’avanzamento della crescita del personaggio.

Grazie ai nuovi Potenziamenti e a un level design ricco e complesso “Deus Ex: Mankind Divided” mi dà sempre l’idea che ogni missione possa essere conclusa in molti modi e percorrendo molte strade. Posso attraversare tutto lo schieramento nemico come uno spettro, passando dai condotti di aerazione (un trucco purtroppo davvero abusato nella serie) e diventando invisibile per evitare le guardie. Posso hackerare una torretta difensiva, in modo che smetta di riconoscere i suoi alleati e spari a chiunque, prenderla in braccio e aggirarmi così conciato sterminando tutto ciò che incontro, difendendomi in caso di necessità con uno dei nuovi Potenziamenti, la corazza Titan. Posso mescolare i due stili, aggirandomi più silenziosamente possibile per poi uccidere i nemici senza che possano suonare l’allarme, magari hackerando a distanza le videocamere e debilitando le difese. Posso risolvere molte situazioni semplicemente parlando e sfruttando i miei Potenziamenti per scoprire come manipolare l’interlocutore.

Deus Ex Mankind Divided: Scelte, conseguenze e Praga

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Se “Deus Ex: Mankind Divided” funziona nel suo gameplay è perché mi mette davanti a situazioni e ambienti complessi risolvibili come preferisco, e scoprire tutti i passaggi nascosti di un livello o capire in che ordine affrontare una serie di guardie diventa un puzzle intelligente e con soluzioni multiple via via arricchite dal mio progresso nella crescita del personaggio e dei suoi Potenziamenti. Nuovamente, però, questa libertà di scelta non porta con sé conseguenze importanti e a lungo termine e il finale del gioco è definito in pratica solo dal mio comportamento nell’ultima missione e può stavolta essere solo “buono” o “cattivo”. Una scelta che faccio prima nel gioco può aiutarmi a conquistare strumenti utili per ottenere il finale buono, ma il punto è che anche in questo Eidos Montréal non ha timore di dividere nettamente tra bene e male.

L’assenza di conseguenze serie per le mie scelte si riflette chiaramente anche nella Praga in cui è ambientato il gioco. Due quartieri di Praga, separati da una metropolitana che mi costringe di continuo a lunghissimi e sfinenti caricamenti, fungono da principale ambientazione di “Deus Ex: Mankind Divided”, da hub per le missioni e da luogo in cui comprare e vendere oggetti e in cui trovare e svolgere missioni secondarie. I quartieri sono effettivamente ben realizzati e la scelta di concentrarsi su un’unica ambientazione, che nel gioco viene mostrata in tre momenti diversi man mano che la trama avanza, rende le vie familiari e incoraggia a esplorare ogni angolo della città in cerca di segreti e risorse, a entrare in ogni luogo che gli sviluppatori mi han reso disponibile. In sostanza, durante tutto “Deus Ex: Mankind Divided” il mio principale lavoro non è stato fare l’agente dell’Interpol, ma il ladro di appartamenti.

Aggirarmi per Praga e le sue case, per la bantustan per Potenziati chiamata Golem o per palazzi pieni di nemici mi regala continue sorprese. Le persone hanno nomi e storie, le loro abitazioni (seppur tutte stranamente simili e piene di alcolici) hanno dettagli segreti e nascondo oggetti che possono aprire nuove strade, nuove missioni e nuove scoperte. I personaggi di “Deus Ex: Mankind Divided” non sono particolarmente riusciti: lo stesso Adam Jensens potrebbe essere tranquillamente sostituito da un protagonista qualsiasi creato dal giocatore, e la sua sottotrama personale (il motivo per cui si ritrovi dei Potenziamenti sperimentali installati) è in questo episodio inutile e incompiuta. Jensen è un personaggio sciatto che finge di porsi le domande giuste e di saper riconoscere il torto ma che si trova in “Deus Ex: Mankind Divided” solo perché i suoi occhiali da sole retrattili (e ridicoli, quando basterebbe un Potenziamento retinico) sono un marchio. Solo un paio di personaggi, Smiley e Aria (l’unica ad aver ottenuto un doppiaggio di buona qualità in italiano), sono caratterizzati nei loro gesti e nel loro carattere nonostante le animazioni di “Deus Ex: Mankind Divided” restino legnose e innaturali. Ma la Praga del gioco sembra viva, le sue case vuote, le email che leggo hackerando i computer o un palmare trovato in un cadavere nelle fogne suggeriscono una vita ricca e complessa, una trama di relazioni da esplorare.

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Trovarmi di continuo nella stessa ambientazione e vederla evolvere mi rende però anche chiaro quanto poco impatto io abbia su di essa e sui suoi abitanti. Posso svaligiare tutte le case in cui riesco a entrare ma questo non mi renderà un criminale ricercato. Posso aggirarmi durante il coprifuoco uccidendo i poliziotti che trovo, ma rifugiandomi brevemente nelle fogne o correndo nella metropolitana e cambiando quartiere la situazione tornerà alla normalità, come se niente fosse successo e non ci fosse un invulnerabile uomo Potenziato che si aggira per Praga trucidando le forze dell’ordine. La città si dimentica facilmente di me e delle mie azioni, al punto che ogni volta che ritorno da una missione e la trovo cambiata i personaggi non giocanti che incontro interagiscono con me come se fosse la prima volta che mi vedono anche se ci ho conversato e commerciato diverse volte sbloccando già altre parti di dialogo.

“Deus Ex: Mankind Divided” funziona perfettamente nelle missioni principali, ma le parti ambientate a Praga sono interessanti e promettenti quanto deboli e a volte lente e noiose. Dimostrano tutta la fatica di gestire un’ambientazione quotidiana, che dovrebbe essere dinamica e credibile, con la sola classica meccanica dello stealth, con i classici nemici che se mi vedono in una zona riservata prima si avvicinano sospettosi, poi si allertano e infine corrono a dare l’allarme generale per poi tornare alle loro occupazioni normali e dimenticarsi di me se scompaio per un tempo bastevole. Questo limite diventa molto pesante e grave nelle parti finali del gioco quando Praga dovrebbe diventare protagonista e invece si riduce a una sciatta ambientazione senza profondità e senza conseguenze per le mie azioni, una perdita di tempo in attesa di un finale inconcludente e tirato via, utile solo a motivare l’uscita di un seguito che, a quanto pare, è già in sviluppo da un anno.

Deus Ex Mankind Divided – Recensione: Breach e microtransazioni

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Concludo dedicando il minor spazio possibile alla modalità “Breach”, una modalità arcade ambientata in una geometrica Realtà Virtuale in cui devo risolvere vari livelli infiltrandomi, rubando delle informazioni senza far suonare allarmi e fuggendo entro un limite di tempo. “Breach” è una aggiunta inutile alla formula di “Deus Ex: Mankind Divided” e, soprattutto, ha la colpa di essere stata pensata e presentata come un gioco free-to-play in cui alimentare l’avanzamento grazie a un classico sistema di microtransazioni che (a quanto pare) Square Enix ha imposto durante le ultime fasi di sviluppo anche al gioco base. La modalità “Breach” è facilmente ignorabile, mentre il sistema di microtransazioni è stato aggiunto tanto tardi e in maniera tanto artificiosa e incoerente da non riuscire a influire in nessun modo nel bilanciamento di “Deus Ex: Mankind Divided” ma da diventare, anzi, un’ulteriore conferma di uno dei temi principali del gioco: l’avidità delle corporazioni multinazionali.

Deus Ex Mankind Divided – Recensione: In conclusione…

“Deus Ex: Mankind Divided” offre i suoi momenti migliori quando diventa puro gameplay e quando racconta attraverso solo le sue meccaniche i suoi personaggi e la sua ambientazione, una Praga cyberpunk in cui i Potenziati (dotati di innesti artificiali) vengono progressivamente segregati. Ogni missione di “Deus Ex: Mankind Divided” può essere risolta in modi diversi, con scontri frontali e aggressivi o con un approccio stealth che il gioco premia con punti esperienza e Achievement, ogni missione può essere risolta percorrendo strade diverse, più o meno segrete, che diventano accessibili man mano che sblocco nuove funzioni per i miei Potenziamenti artificiali. Questa libertà di scelta non incide realmente sul mondo di gioco, dettagliato ma poco reattivo alla mie azioni, o sulla crescita del protagonista e la trama tratti temi come l’apartheid e il terrorismo con superficialità e banalità, senza apparentemente conoscerli o con la malafede di chi deforma la Storia seguendo l’attuale vento della politica internazionale americana. “Deus Ex: Mankind Divided” di Eidos Montréal e Square Enix è già disponibile per PC, PlayStation 4 e Xbox One.

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