Ghost in the Shell non parla di tecnologia ma del nostro razzismo – Recensione

La sequenza iniziale dell’adattamento in film animato di “Ghost in the Shell” (diretto da Mamoru Oshii e uscito nel 1995) mi ricorda un aneddoto che amo su Hitchcock raccontato da Hitchcock stesso in “Il cinema secondo Hitchcock” di François Truffaut. “Pensai una scena per Intrigo internazionale, ma alla fine non la realizzammo davvero. Siccome ci stavamo spostando verso nord ovest da New York una delle mete del percorso sarebbe stata Detroit, dove creano le automobili Ford. Hai mai visto una catena di montaggio? Sono assolutamente fantastiche. Comunque, volevo avere una lunga scena di dialogo con Cary Grant e uno degli operai della fabbrica, mentre i personaggi camminano lungo la catena di montaggio. Avrebbero potuto, per esempio, parlare di uno dei capisquadra. Intanto dietro di loro vediamo una macchina che viene assemblata, pezzo su pezzo. Finalmente, la macchina che hanno visto nascere da un semplice dado con un bullone è finita, ha il motore pieno ed è pronta a essere guidata via dalla catena di montaggio. I due uomini la guardano e dicono: accidenti è meravigliosa! Ma poi aprono lo sportello della macchina e un cadavere scivola per terra! Da dove viene quel corpo? Certo, non dalla macchina, perché la hanno vista costruire sin da zero! Ecco, quel cadavere arriva dal nulla! E magari quel cadavere è proprio del caposquadra di cui i due personaggi stavano discutendo… Il vero problema era che non potemmo integrare la scena dentro la storia. Anche una scena gratuita deve avere una qualche giustificazione per essere nella storia, sai!”

Shelling e Hitchcock

Dopo una breve scena introduttiva, ripresa dal primo episodio della serie di fumetti originale di “Ghost in the Shell” di Shirow Masamune (1988), il film di Oshii mostra il processo di creazione del corpo cyborg della protagonista, Motoko Kusanagi, in una sequenza ispirata invece a un capitolo successivo del fumetto in cui Motoko visita una catena di montaggio. Come nell’idea di Hitchcock avrei visto costruire un’automobile per poi trovarci dentro un mistero, un cadavere, così nella sequenza di “Ghost in the Shell” vedo costruire un corpo robotico, sintetico, per poi trovarci dentro un mistero: una coscienza. Certo, potrei dire che la situazione in “Ghost in the Shell” è molto più semplice: so da dove viene la coscienza nel corpo di Motoko poiché durante la sua costruzione vedo chiaramente il suo cervello, l’unica parte umana (seppur potenziata) nella ragazza, ma il film mette in dubbio proprio questo legame tra umanità e cervello umano, mette in dubbio l’esistenza stessa di qualcosa che non riconduca la nostra mente a una serie di reazioni e tracce chimiche e impulsi elettrici.

Siamo in un futuro prossimo, il Maggiore Motoko Kusanagi è un agente cyborg della Sezione 9, in cui quasi tutti i membri sono potenziati artificialmente, e combatte contro un hacker chiamato “il signore dei pupazzi” (o “il marionettista” o “il burattinaio” a seconda della traduzione) capace di manipolare persone dotate di innesti cibernetici nel cervello creando false memorie da sfruttare per i suoi scopi. In uno dei momenti iniziali del film, per esempio, il signore dei pupazzi crea in un netturbino solitario il finto ricordo di una famiglia, di una moglie che all’improvviso vorrebbe il divorzio, per spingerlo a cercare un modo per spiarla, e crea in un criminale comune l’identità di hacker assunto per un attentato politico perché sfrutti il netturbino inconsapevole non per hackerare la moglie (inesistente) ma un funzionario del governo. Questo scontro tra la Sezione 9 e il signore dei pupazzi/marionettista/burattinaio è l’occasione sia per mostrare il cinismo dei governi e delle loro trame, un tema caro a Shirow Masamune che riempie le storie originali del fumetto di elementi fantapolitici estremamente realistici, sia per parlare del mistero accennato all’inizio, quello sulla presenza di una coscienza in un corpo artificiale, del rapporto tra qualcosa che potremmo chiamare “anima” (“ghost”, “spirito”) e corpo abitato (“shell”). Cosa ci rende umani, cosa è umano?  Cosa accade quando l’uomo si avvicina la macchina e, soprattutto, quando la macchina, il computer, si avvicina all’uomo?

Una questione privata… di qualsiasi profonditàGhost in the Shell film Rupert Sanders recensione

L’adattamento cinematografico di Rupert Sanders (“Biancaneve e il cacciatore” per dirvi in che mani siamo finiti) con Scarlett Johansson nel ruolo del Maggiore, nota qui come Mira Killian, non è altrettanto interessato a investigare questi temi, come non è interessato a investigare alcun tema. Il lungometraggio ripropone pedissequamente le scene del film animato originale, ignorando totalmente il fumetto, ma crea con queste scene una trama che non c’entra niente con quella di “Ghost in the Shell”, piena di buchi di sceneggiatura, di personaggi che si comportano in modo assurdo solo per far avanzare la trama e di incoerenze. Le scene copiate dal film di animazione sono tra le parti migliori del film di Sanders, ma più che un adattamento l’opera sembra un remix realizzato campionando il film originale e incastrando a piacere i pezzi. Agli autori piacevano visivamente le scene di “Ghost in the Shell” e non interessava in nessun modo rispettarne i contenuti o lo spirito, ma c’è anche una difficoltà oggettiva nel raccontare oggi, di nuovo, “Ghost in the Shell” di Shirow Masamune e Oshii.

Le opere di Shirow Masamune e di Mamoru Oshii nascevano agli albori della computerizzazione e della diffusione di internet in cui oggi viviamo, si interrogavano su quali sarebbero stati i risultati della creazione di una rete che connettesse tutta l’umanità e, soprattutto, di una rete che connettesse tutta la sua memoria. Oggi viviamo quella rete come qualcosa di quotidiano e banale, siamo realmente sempre connessi a internet grazie ai nostri smartphone e la nostra realtà sta cominciando davvero a fondersi con quella virtuale. Il film di Rupert Sanders, incapace di portare nella modernità gli interrogativi di Shirow Masamune e Oshii, preferisce abbandonarli: nel suo “Ghost in the Shell” per esempio internet sembra non esistere. Il film si concentra sul personaggio interpretato da Scarlett Johansson, un agente della Sezione 9 creato dalla Hanka Corporation che afferma di aver con lei realizzato il primo cyborg completo dopo averne salvato solo il cervello a seguito di un attentato terroristico che ha distrutto la nave con cui lei e la sua famiglia stavano arrivando nel Paese. Spinta dal suo passato Mira combatte contro un’organizzazione terroristica controllata da un misterioso uomo chiamato Kuze che sta uccidendo, uno dopo l’altro, proprio gli scienziati della Hanka Corporation. Il film di “Ghost in the Shell” di Rupert Sanders si concentra solo sulla vicenda personale del Maggiore, una vicenda personale totalmente ininfluente nell’opera originale, spostando l’attenzione da temi universali, e oggi ancora più attuali di quanto lo fossero nel 1988 o nel 1995 come il ruolo della tecnologia nelle nostre vite e gli interrogativi che essa porta con sé, a una semplice storia di amnesia: Mira Killian è davvero Mira Killian? E chi se ne frega?

Whitewashing spinto alle estreme conseguenze

Ghost in the Shell film Rupert Sanders recensione

E qua devo fare qualcosa che normalmente evito: devo anticiparvi il finale. Prima di tutto perché è necessario per parlare dei gravi problemi di “Ghost in the Shell”, poi perché lo svolgimento e la sua conclusione sono di una tale banalità che nessuno resterà stupito dai loro (chiamiamoli così) “colpi di scena” e infine perché se anticiparvi il finale vi rovinerà il film e vi farà passare la voglia di vederlo avrò raggiunto effettivamente il mio scopo, che è quello di incoraggiarvi a colpire duramente chi propone un’operazione come questo adattamento di “Ghost in the Shell”. E queste persone, persone che odiano il loro lavoro e lo fanno senza passione, senza amore, senza nessun desiderio di dare qualcosa di bello al prossimo ma solo con l’intero di distruggere, rovinare, saccheggiare, possono essere colpite solo nel portafogli.

Il casting di “Ghost in the Shell” di Sanders è stato subito accolto con sospetto: perché il ruolo del Maggiore, che nella storia originale è giapponese, dovrebbe essere interpretato da Scarlett Johansson e non da un’attrice giapponese o almeno di origine asiatica? Come risposta vale sempre quella che Ridley Scott dette quando gli chiesero perché avesse messo i soliti attori bianchi a interpretare i principali protagonisti, Ebrei ed Egiziani, nel suo “Exodus – Dei e re”:  “Non posso mettere in piedi un film con questo budget… e dire che il mio attore principale è Mohammad così-cosà da lupoululà-castelloululì… semplicemente non troverei i soldi.” Per chiarire quanto questo sia falso: mentre “Ghost in the Shell” di Rupert Sanders si avvia a diventare uno dei più grandi flop dell’anno, “Get Out”, un film che parla di temi razziali e ha un protagonista di colore con certo minor richiamo di Scarlett Johansson, è intanto il film tratto da una sceneggiatura originale con il miglior debutto dell’intera storia del cinema americano.

Ghost in the Shell film Rupert Sanders recensione

Il fatto che si sia scoperto che inizialmente avevano provato a orientalizzare l’attrice usando la computer grafica non ha migliorato la situazione. “Ghost in the Shell” è, in questo, l’ennesimo esempio di come Hollywood non riesca ad accettare facilmente che l’etnia bianca caucasica non sia quella di default al mondo, che il mondo non si divida in “quelli normali cioè bianchi” e “quelli di colore che mettiamo nei film solo se serve proprio uno di colore e non possiamo farne a meno”. Come non riesce ad accettare che il mondo si divida in “quelli eterosessuali cioè normali” e “quelli non eterossessuali che mettiamo nei film solo se serve proprio uno non eterosessuale e non possiamo farne a meno”. La risposta più ridicola che ho sentito a riguardo è quella che vorrebbe i personaggi dei fumetti giapponesi già disegnati “come se fossero occidentali” e che quindi ipotizza che tutti i fumetti giapponesi siano ambientati in una specie di realtà parallela in cui nell’intero Giappone l’unica etnia è quella bianca caucasica. Quelli che noi identifichiamo come tratti etnici giapponesi non sono semplicemente esplicitati nel fumetto giapponese, e proprio come noi vediamo nei volti senza tratti razziali dei manga la nostra pura razza ariana così i Giapponesi vedono in quella sintesi loro stessi. Esiste persino una precisa caratteristica che viene usata nel fumetto giapponese, soprattutto in quello più vecchio (come “Ghost in the Shell”), per rappresentare gli occidentali distinguendoli dai personaggi “normali”, cioè giapponesi: noi veniamo disegnati con nasi molto pronunciati. Se la questione del whitewashing, il processo con cui l’Occidente riconduce a se stesso altre culture e riconduce alla sua etnia altre etnie, pesava già su “Ghost in the Shell” prima dell’uscita, quando sono arrivato al suo finale la situazione è precipitata e ha trasformato questo film in una delle occidentalizzazioni più superficiali che io abbia mai visto. Per chiarirci, questo film galleggia al livello di “Dragon Ball Evolution”. E scrivo “galleggia” perché è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni.

Nel finale di “Ghost in the Shell” scopro che il Maggiore Mira Killian non è un’immigrata che ha perso la famiglia durante un attentato terroristico, ma un’attivista anti-tecnologia giapponese di nome Motoko Kusanagi che è stata rapita dalla Hanka Corporation insieme ai suoi compagni e usata come cavia umana. Kuze era un suo amico, anch’esso un attivista giapponese di nome Hideo, anch’esso trasformato in cyborg dalla Hanka in un esperimento purtroppo fallito e scartato: come la Hanka ha cercato di distruggere Hideo/Kuze, ancora in parte senza memoria, disorientato, abbandonato a se stesso, così Hideo/Kuze ha creato un’intera organizzazione terroristica (non viene mai chiarito come, perché la sceneggiatura manca di tutti i passaggi logici, sempre) per distruggere la Hanka. “Ghost in the Shell” di Rupert Sanders, lo dico in un altro modo, è la storia di un gruppo di attivisti di colore rapiti da una corporazione e trasformati in cyborg bianchi (Hideo/Kuze è Michael Pitt). Narrativamente ha senso ed è uno spunto che poteva essere svolto anche in modo interessante concentrandosi proprio sull’elemento razziale, ma siccome la trama non si occupa di esplorare alcuna delle sue implicazioni più profonde (neanche investiga cosa voglia dire per una attivista anti-tecnologia essere inserita in un cyborg) il finale diventa una disperata giustificazione al whitewashing e un crudele commento all’whitewashing stesso subito dalla protagonista: come la malvagia corporazione Hanka rapisce attivisti giapponesi e li trasforma per i suoi scopi in cyborg bianchi, in quanto forse culturalmente e intellettualmente incapace anche di pensare all’esistenza di altre etnie, così gli autori di “Ghost in the Shell” hanno preso una storia giapponese piena di implicazioni politiche, filosofiche e culturali e la sua protagonista giapponese e li hanno trasformati in un prodotto occidentale con protagonisti bianchi (ci sono personaggi di colore, ma quasi tutti abbandonati sullo sfondo) per i loro scopi.

Ghost in the Shell di Rupert Stander: in conclusione…

Ghost in the Shell film Rupert Sanders recensione

“Ghost in the Shell” di Rupert Sanders, tratto (almeno secondo gli autori) dal fumetto giapponese “Ghost in the Shell” di Shirow Masamune, è un film con un buon uso del 3D stereoscopico e alcune belle scene di ambientazione urbana seppur poco originali e create unicamente tramite accumulo di stereotipi cyberpunk, ma scene d’azione costruite con poca fantasia e con un uso stupido, diffusissimo nel cinema americano, dell’Effetto Rallenty. Il difetto maggiore di “Ghost in the Shell” non sta però nel suo apparato tecnico, alla fine decente nonostante la banalità e alcuni momenti di computer grafica non ben riusciti, ma nel suo adattamento superficiale del materiale originale, trasformato in una trama incoerente che prende pezzi dell’adattamento animato di “Ghost in the Shell” del 1995 di Mamoru Oshii per creare una storia che non c’entra niente e che non arriva da nessuna parte. Il film accenna continuamente a grandi temi universali, alla meditazione sul rapporto tra uomo e tecnologia, anima e corpo, che era centrale nelle opere di Shirow Masamune e Oshii, ma riduce tutto all’ennesima storia di un agente, il cyborg Mira Killian (Scarlett Johansson) con l’amnesia e creato da una corporazione che in realtà lo imbroglia. Non aspettatevi colpi di scena: avete già visto e rivisto tutto. Il processo di whitewashing subito dalla protagonista, e dall’intero mondo narrativo, e causa di tante controversie sin da prima del lancio del film è alla fine solo uno dei suoi tanti problemi di “Ghost in the Shell”, ma nel finale esplode mostrando tutta la pochezza di chi ha pensato un tale adattamento come sciacallaggio di un marchio commerciale a uso e consumo dell’Occidente più superficiale. Voto: 0/10. Sul serio: l’azione è noiosa, la storia è scritta male pur basandosi su una delle opere più ricche di dettagli e realismo nella storia del fumetto e dell’animazione, la trama è inconcludente e il modo in cui sono stati adattati i personaggi, tutti trasformati nel casting e nella narrazione in bianchi caucasici, mi tratta come un coglione razzista incapace di seguire un film se la protagonista non è della mia etnia. Vaffanculo “Ghost in the Shell”.

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