Hideo Kojima: oggi la rete di Ghost in the Shell non ci sembra vasta o infinita

La prima passione di Hideo Kojima non furono i videogiochi, ma il cinema, e l’autore giapponese ha certo contribuito ad avvicinare lo stile dei videogiochi, delle loro trame, dei loro filmati e del loro respiro, a quello cinematografico. Senza ignorare come contemporaneamente abbia costruito gameplay come quello dello scontro con Psycho Mantis in “Metal Gear Solid” (1998), qualcosa di ottenibile solo nel videogioco. È anche un appassionato di tecnologia e, come si nota proprio da “Metal Gear Solid”, di una fantascienza che diventa filosofia e si ingrandisce sino a sembrare sovrannaturale, ed è quindi interessante leggerne l’opinione su “Ghost in the Shell” e sul suo nuovo adattamento cinematografico di Rupert Sanders.

Nasce così un breve saggio su “Ghost in the Shell” scritto da Kojima stesso e pubblico su Glixel come prima parte di una sua serie di saggi mensili dedicati al cinema. “Ghost in the Shell” nasce come manga nel 1988. Il suo autore, Shirow Masamune (nome d’arte di Masanori Ota), ha vissuto la strana condizione di essere stato famosissimo in tutto il mondo (persino più che in Giappone) per essere poi in gran parte dimenticato a favore di Mamoru Oshii, autore dell’adattamento in film animato di “Ghost in the Shell” realizzato nel 1995. Oggi quando si parla di “Ghost in the Shell” si parla del film di Oshii più che del manga di Shirow Masamune.

Nel saggio, che vi consiglio di leggere integralmente come vi consiglio di seguire questa nuova rubrica mensile di Glixel, Hideo Kojima attraversa tutte le mutazioni di “Ghost in the Shell”, tutti i gusci (gli “shell”) che, come scrive lui, il suo spirito (“ghost”) ha abitato. Dal saggio “Il fantasma dentro la macchina” di Arthur Koestler, da cui Shirow Masamune riprese titolo e tema (il rapporto tra corpo e anima/mente) al fumetto al film d’animazione al film attuale, che viene criticato da Kojima non tanto per la qualità del guscio, che è anzi secondo lui fedele al film di Oshii (anche in questo caso è questo il riferimento, non il fumetto originale) persino in modo pedissequo e adatto al contenitore hollywoodiano pensato per chi non è interessato alla profondità originale, ma per come trasforma lo spirito dell’opera originale. “Ghost in the Shell”, sia fumetto sia film d’animazione, è costruito su una domanda: cosa vuol dire essere umani? Il film di Rupert Sanders riduce la questione a qualcosa di molto personale per il suo personaggio principale: Scarlett Johanson è Mira Killian (o forse no), il primo cyborg mai costruito in un’epoca di potenziamenti cibernetici, ed è in cerca non tanto della natura umana ma della sua identità, della verità su chi era prima della trasformazione. È la tipica storia di una persona colpita da amnesia. “È sostanzialmente The Bourne Identity ambientato in un mondo futuristico connesso da una grande rete di informazioni.”

Secondo Kojima il motivo di questo mutamento è dovuto all’evolversi della tecnologia originale. Il fumetto di “Ghost in the Shell” è stato realizzato in un’epoca cui l’idea di una rete di massa, un internet che connettesse tutti i dispositivi e tutte le persone, era una prospettiva futura ma ancora in gran parte fantascientifica, il film animato di “Ghost in the Shell” è stato realizzato agli albori di internet e il film attuale è stato realizzato in un’epoca in cui tutti siamo realmente sempre connessi a internet tramite i nostri smartphone. “Nel 2017, uno non può semplicemente mormorare la rete è vasta e infinita e sperare di avere l’impatto che questa affermazione ebbe 22 anni fa quando fu detta da Motoko Kusanagi con quel successo. Nel 1995 internet era una nuova misteriosa frontiera; oggi è una quantità misurabile. Gli smartphone sono incollati alle nostre mani, siamo costantemente connessi. A noi la rete non sembra vasta o infinita.”

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