Prey (2006) – Retrospettiva in attesa della recensione di Prey di Arkane Studios

Quando Bethesda acquistò il marchio “Prey” i suoi sviluppatori, Human Head Studios, stavano lavorando a un “Prey 2” da lungo annunciato. La compagnia non era però contenta del lavoro dello studio, tolse loro il gioco e decide di usare il marchio per una nuova opera, il nuovo “Prey” di Arkane Studios che esce oggi per PlayStation 4, Xbox One e PCArkane Studios è arrivato a dire che in futuro spera che i giocatori pensino alla sua opera, e non a quella di Human Head Studios, sentendo il nome “Prey”: vuole che il precedente lavoro sia cancellato interamente dalle memoria. Un lavoro facile, perché “Prey”, all’epoca festeggiato in modo persino esagerato, è scomparso dalla memoria dei giocatori rapidamente ed è oggi un gioco sia ignoto sia difficile da reperire per chi lo conosce. In occasione dell’uscita di “Prey” di Arkane Studios ho deciso di rigiocare il “Prey” originale dopo undici anni dalla sua uscita per scrivere un articolo che è sia una nuova recensione sia una retrospettiva su un gioco sia sopravvalutato sia sottovalutato.

Contesto storico di Prey (e delle sue recensioni)

Prey 2006 Recensione

Prima di iniziare la recensione di “Prey” è necessario raccontare brevemente come il gioco si arrivato nei negozi. “Prey”, annunciato da 3D Realms nel 1995, sarebbe dovuto essere il primo di una serie di giochi realizzati con un nuovo motore grafico appositamente creato: idSoftware ha “Doom” e “Quake” e l’idTech, Epic Games ha “Unreal” e l’Unreal Engine e 3D Realms avrebbe avuto “Prey” e il suo motore. I primi progetti per il gioco sono dovuti a Tom Hall, fondatore di idSoftware da egli abbandonata quando Romero si oppose ai suoi progetti di sparatutto narrativi concentrandosi sul gameplay alla “Doom” che segnò il genere sino ad “Half-Life” (1998). Quando nel 1996 Tom Hall abbandonò il progetto per fondare Ion Storm con John Romero (cacciato da idSoftware impegnata su “Quake 2”), il progetto passò a Paul Schuytema di 3D Realms che definì alcuni elementi poi rimasti nel gioco. Prese lo spunto iniziale di Hall, il rapimento alieno, e ambientò “Prey” su una grande astronave extra-terrestre, decidendo che il protagonista sarebbe stato un Nativo Americano e incentrando il gameplay sull’uso di portali capaci di collegare zone diverse dello spazio e di essere spostati. Implementare i portali si rivelerò però problematico, e dopo un altro tentativo fallito il progetto “Prey” restò congelato sino al 2001, quando 3D Realms potè sfruttare un motore già esistente, l’idTech 4, per far funzionare questa meccanica. “Prey” fu commissionato a Human Head Studios, che avrebbe usato il materiale esistente come base, e sarebbe stato prodotto da 2K Games per PC e Xbox 360.

Quando “Prey” di Human Head Studios uscì era ormai il 2006. L’idea dei portali era visionaria nel 1997, quando fu presentata alla stampa la versione del gioco ideata da Schuytema, il suo gameplay diretto e poco narrativo sarebbe stato perfetto per l’epoca di “Duke Nukem 3D” (1996), per l’epoca precedente a “Half-Life” (1998). Quando “Prey” uscì era invece già disponibile “Half-Life 2” (2004) e ne stavano uscendo gli episodi (“Half-Life 2: Episode 1” è del 2006), era già disponibile “F.E.A.R.” (2005) e già circolava la demo di “Portal”, che sarebbe uscito nel 2007 mostrando quanto in là potesse spingersi la meccanica dei portali che “Prey” alla fine avrebbe solamente accennato. Nonostante questo, nonostante fosse per sua natura un gioco di transizione con idee destinate a essere realizzate dopo poco tempo da altri, o forse per la sua capacità di riproporre all’epoca uno sparatutto semplice, diretto come quello di “Painkiller” (2004) ma arricchito da elementi puzzle, “Prey” ottenne un discreto successo (un milione di copie in due mesi), ebbe recensioni molto positive e si meritò un sequel, mai realizzato.

Cherokee contro macchine aliene

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In “Prey” sono Domasi “Tommy” Tawodi, un Cherokee con un passato da soldato nell’esercito degli Stati Uniti d’America e deciso ad abbandonare una volta per tutte la Riserva insieme alla fidanzata, Jen, nonostante le riserve della ragazza, che non intende lasciare la sua famiglia, e le proteste del nonno, Enisi, che lo richiama al rispetto delle tradizioni. I tre personaggi vengono rapiti da maligni alieni e portati nella loro astronave, ma Tommy riesce a liberarsi con l’aiuto di altri esseri umani (“i Fuggitivi”) e inizia lo scontro con i suoi nemici alla ricerca di Jen.

Tommy rifiuta il suo retaggio, Enisi lo abbraccia completamente, Jen sta a metà tra i due mondi, cercando di bilanciarli e di permettere una comunicazione tra essi. Anche il loro abbigliamento lo racconta: Tommy ha una giacca di pelle, Enisi un abito tradizionale Cherokee e Jen è la tipica fantasia maschile di una cameriera di un bar per motociclisti con canottierina scollata e jeans, ma indossa anche una collana tradizionale. Per quanto la caratterizzazione dei tre personaggi sia patetica e caricaturale essi sono chiaramente caratterizzati e inseriti in posizioni equidistanti di un conflitto che, nelle intenzioni degli autori, avrebbe dovuto fare da sottotesto a tutto il gioco. È il conflitto tra antico e nuovo, organico e maccanico, tra tradizioni Cherokee e alieni bio-meccanici.

L’inizio di Prey è ancora un modello da studiare

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I primi minuti di gioco inquadrano perfettamente la situazione, e restano tanto validi da poter essere tuttora proposti come esempio su come si imposti un gruppo di personaggi e un conflitto ordinario prima di andare nello straordinario, come si costruisce lo status quo che sarà poi sovvertito delineando però già i grandi temi della storia, temi che lo svolgimento centrale (lo sparatutto contro gli extra-terrestri) dovrebbero solo rappresentare in altra forma. Inizio “Prey” nel bar di Jen, un luogo triste e poco frequentato in cui per l’ennesimo volta tento, senza successo, di convincere la ragazza a fuggire con me, mentre il nonno Enisi mi avverte di quanto mi saranno necessarie le tradizioni Cherokee per sopravvivere. Il bar è pieno di oggetti comuni e interattivi, e il primo scontro del gioco è una rissa da taverna con alcuni fastidiosi avventori. In pochi minuti è già tutto di fronte a me: i temi, i personaggi, le meccaniche di interazione e i combattimenti.

Alla fine della rissa il bar, con tutti i presenti, viene trascinato pezzo per pezzo su un’enorme astronave aliena, una immensa Sfera abitata da molteplici razze dominate da alcune entità chiamate i Custodi (e, forse, da entità ancora superiori a essi). Il gioco mi introduce agli alieni, e alle loro cattive intenzioni, in una sequenza lunga e poco interattiva in cui mi sento impotente di fronte al mondo che scopro e agli orrori che vedo, tra cui la morte di nonno Enisi. Anche questa parte del gioco è attentamente costruita, con un giusto spazio dedicato prima alla presentazione dell’ambientazione e poi a ogni meccanica, ai suoi possibili usi e all’interazione con i miei poteri Cherokee (perché essendo Cherokee ho naturalmente dei poteri Cherokee). Si tratta di una regola base del game design oggi spesso dimenticata: il giocatore deve avere l’opportunità di capire da solo come le cose funzionano in occasioni in cui è incoraggiato, quasi senza accorgersene, a provare e sperimentare, magari dopo aver visto altri personaggi o anche nemici fare prima di lui quello che sarà a lui richiesto. È inutile dire al giocatore che un certo oggetto, usato in un certo modo, fa una certa cosa: il giocatore deve vederlo succedere e deve farlo, non deve leggerlo. Comunque “Prey” non mi lascia totalmente da solo e mi dà anzi un grosso aiuto nel muovermi nei suoi ambienti, facendo in modo che il mio Animale Guida, il Falco, mi indichi la strada e gli elementi interattivi, ma lo fa con una certa eleganza rispetto a tutti i giochi attuali in cui non riesco a capire cosa sia interattivo e cosa non lo sia se non usando cose come “L’occhio dell’Aquila” o la “Modalità Detective” e in cui una freccia sulla minimappa mi indica continuamente la direzione.

Puzzle gravitazionali

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Per quanto “Prey” sia soprattutto uno sparatutto, è costruito da un level design assai originale per l’epoca e usa tutte le meccaniche disponibili per creare un labirinto alieno dove i muri possono diventare corridoi e i soffitti pavimenti, dove portali si aprono inaspettatamente creando connessioni prima inesistenti e dove una scatola può contenere l’ingresso a un nuovo mondo. In “Prey” mi trovo di fronte a una realtà altra rispetto alla mia, con leggi e regole diverse, e devo imparare a rispettarla e a sfruttarla a mio vantaggio. Il risultato finale è ancora perfettamente lineare, con livelli che, seppur apparentemente intricati e basati su giochi gravitazionali e passaggi impossibili, sono in realtà costruiti semplicemente come lunghi corridoi che a volte si allargano in arene, con pochissime strade alternative e segreti.

Ci sono pavimenti Cammina-Muri, percorsi luminosi attivabili con alcuni tasti e capaci di farmi camminare su pareti e su soffitti fin quando resto con i piedi sul pavimento stesso (se salto, per esempio, cado nella direzione della normale gravità presente). Ci sono tasti che, se colpiti, cambiano la gravità della stanza orientandola verso la parete su cui il tasto si trova. Ci sono portali da cui arrivano improvvisamente nemici e che io posso sfruttare per fuggire da situazioni sennò impossibili. Ci sono strane uova/bombe aliene da far esplodere per liberare dei passaggi. Ci sono piccoli pianeti con la loro gravità da raggiungere con astronavi monoposto capaci di spostare oggetti e nemici con raggi traenti. E ci sono i poteri Cherokee di Tommy: Tommy può assumere una Forma Spirituale, diventando un’anima capace di superare ostacoli come campi di forza, di percorrere misteriosi sentieri sennò invisibili e di scoccare Frecce Spirituali da una faretra che si ricarica uccidendo nemici e rubando le loro anime.

Prey 2006 Recensione

Il problema è che “Prey” non riesce a far molto di tutte queste meccaniche. Sono tante, c’è davvero una bella varietà nel gioco e avere nel 2006 tanti elementi puzzle in uno sparatutto in prima persona era comunque una novità. Ma, forse anche temendo di allontanare i giocatori di sparatutto puri, “Prey” non va mai molto avanti con queste idee. La Forma Spirituale, per esempio, è usata spesso solo per superare un campo di forza o una zona sorvegliata da sensori laser e spegnere l’ostacolo pigiando un tasto immediatamente e comodamente disponibile dall’altro lato. Mentre i pavimenti Cammina-Muri sono divertenti e belli da vedere e da usare e offrono un sacco di opportunità per sparare ai nemici da angoli strani, o per essere bersagliati da nemici che si trovano inaspettatamente sulle pareti o sui soffitti delle stanze, ma si riducono a semplici corridoi posizionati in un modo originale. I puzzle interessanti sono pochi, pochissimi (posso contarli sulle dita di una mano) e sono tutti davvero semplici e lineari, con poche possibilità di sbagliare.

Alcune idee sono poi sfruttate pochissimo. Apprezzo il coraggio di Human Head Studios, il coraggio di buttare anche un po’ via le idee, perché “Prey” ha abbastanza idee da poterselo permettere, ma avrei voluto vederne almeno una arrivare da qualche parte. Il premio come meccanica più ignorata del gioco la merita l’accendino di Tommy, che servirebbe a illuminare le aree buie delle mappe e che ha persino una sua barra dedicata alla carica del serbatoio. Viene usato una volta all’inizio del gioco e una volta alla fine, e poi basta (il gioco, pur sfruttando l’idTech di “Doom 3”, è molto ben illuminato). È inutile sprecare un tasto e inserire un’intera barra per un oggetto usato solo due volte. Le fanno concorrenza altre due meccaniche, che vantano una sola apparizione in tutto “Prey” ma che almeno non occupano una barra e un tasto: un interruttore che rovescia momentaneamente la gravità (lo stesso enigma, con la stessa soluzione, lo stesso bottone e un effetto sonoro quasi uguale comparirà in “Limbo” di Playdead nel 2010) e la possibilità di essere miniaturizzato attraversando i portali.

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Prey 2006 Recensione

All’altro estremo troviamo la mano aliena. In “Prey” trovo a un certo punto una porta che può essere aperta solo con le impronte digitali di una mano aliena, che riesco poi a recuperare da un cadavere nemico. L’idea, che proviene direttamente dai primi progetti del primo “Doom” di idSoftware (potrebbe essere in “Prey”, quindi, dai tempi di Tom Hall) è alla fine quella di creare un’alternativa macabra e meno giocosa alla tipica chiave. Il problema è che in “Prey”, da quel momento del gioco in poi, tutte le porte che necessitano le impronte digitali per essere aperte vengono aperte con quella mano. Tutte, per tutto il gioco. È inutile inserire porte chiuse da una chiave che obbligatoriamente possiedo a quel punto del gioco. Mi sembra che gli autori avessero in mente di usare ripetutamente una simile meccanica e, per ragioni di tempo, alla fine abbiano reso utilizzabile la stessa mano su tutte le porte.

Sparatutto anni 90

Le meccaniche sparatutto sono, invece, un punto molto debole di “Prey”. Le armi hanno utili funzioni di fuoco alternative e sono perfettamente anni 90, con un design ortogonale privo di pesanti sovrapposizioni e senza l’ormai tipico mirino (fa eccezione la prima arma, il fucile, in quanto il mirino da cecchino è il suo fuoco secondario). Il problema è che i nemici sono guidati da un’Intelligenza Artificiale pessima. Non scrivo “pessima” pensando agli standard odierni, ma a quelli di allora: “F.E.A.R.” ha tuttora una delle Intelligenze Artificiali migliori mai viste in uno sparatutto in prima persona, e in “Prey” invece i nemici si limitano solitamente a corrermi addosso o a spararmi da dove si trovano, a seconda delle armi che possiedono, e non applicano nessuna tattica di gruppo, non tentano neanche di aggirarmi o di sfruttare in modo dinamico tasti, allarmi e Cammina-Muri. All’inizio del gioco uno degli alieni spegne il Cammina-Muri che sto usando, ma nonostante le mie speranze si tratta solo di una inutile sequenza scriptata che non mi insegna niente del comportamento nemico e che non viene mai più ripetuta. Inoltre, i nemici non reagiscono ai miei colpi, e quando vengono attaccati si limitano a restare immobili pronti a spararmi, come se i miei proiettili fossero privi di massa. Il fatto che Tommy, grazie ai suoi poteri, sia immortale riduce poi ogni scontro (anche contro un boss) a una semplice questione di attrito: quando muoio vengo portato sul Piano Spirituale e devo uccidere demoni rossi per ricaricare la mia Salute e demoni blu per ricaricare il mio Spirito (la barra che uso per scoccare Frecce Spirituali) e dopo un periodo di tempo torno in vita, esattamente dal momento in cui sono morto, con la Salute e lo Spirito che son riuscito a conquistare sul Piano Astrale. L’idea è originale, ma consente agli sviluppatori di non preoccuparsi del bilanciamento del gioco contando sul fatto che qualsiasi giocatore, tentativo dopo tentativo, possa alla fine uccidere un nemico.

La trama di Prey è davvero spazzatura
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Le meccaniche sparatutto non sono comunque la parte meno riuscita di “Prey”, perché anche quando la sua costruzione e la sua progressione funzionano la sua trama e la sua scrittura non sono buone, anzi: la trama e la scrittura di “Prey” sono pessime. Sono vera vera spazzatura (e sono anche tradotte male in italiano, con discorsi che semplicemente non hanno senso). Tommy è uno dei peggiori protagonisti immaginabili, è una persona capace di rifiutare l’aiuto e l’addestramento di Enisi dopo che l’anziano gli ha dato un Falco Guida magico, un arco spirituale, la capacità di diventare etereo e l’immortalità. Dopo tutto questo, pur dovendo combattere contro un intero pieneta bio-meccanico alieno, Tommy continua a schifare le tradizioni Cherokee trattandole come corbellerie e dicendo che non ha tempo per addestrarsi perché deve salvare Jen. E non penso di aver mai visto un personaggio femminile più maltrattato di Jen, una damigella in pericolo da salvare che (necessaria anticipazione) a un certo punto della storia muore in modo atroce solo per far ulteriormente arrabbiare il protagonista.

Per tutto “Prey”, dopo la non troppo approfondita caratterizzazione iniziale, Jen viene ridotta alla spinta che mi muove per l’astronave, all’unico motivo per cui uccido e per cui procedo tra tanti nemici. Ho detto che forse non ho visto un personaggio femminile maltrattato quando Jen, ma a essere sincero un ulteriore personaggio femminile, che incontro nella Sfera, è rappresentato in modo se possibile ancora peggiore: è una sacerdotessa dai tratti esotici e poco vestita. La rappresentazione dei Cherokee è poi a dir poco riduttiva, quasi ridicola, a partire da nonno Enisi mostrato a inizio gioco come un vecchio saggio indiano che se ne sta nel bar con una bottiglia di alcolico in mano. Voglio anche sottolineare il fatto che Tommy e Jen siano stati doppiati da due Nativi Americani… ma della popolazione sbagliata: per doppiarli furono chiamati due attori Cree, un popolo che parla una lingua totalmente diversa da quella Cherokee (non fa proprio parte della stessa famiglia linguistica). Il fatto che per noi i Nativi Americani siano un unico popolo indistinto (rappresentato banalmente secondo gli stereotipi delle popolazioni che vivevano nelle praterie) non rende questa cosa vera. L’intero gioco manca inoltre di una qualsiasi narrazione ambientale: mentre imparo le meccaniche interagendo con l’ambientazione, imparo la storia della Sfera solo da spiegoni didascalici che vengono ogni tanto infilati nel racconto e i luoghi che visito, per quanto graficamente ben realizzati, sono monotoni, sono verdastri, marronciastri e grigiastri, sono noiosi e anonimi.Prey 2006 Recensione

La seconda metà del gioco acuisce tutti i difetti di scrittura di “Prey”, con personaggi che contraddicono quello che hanno appena detto (forse come risultato di una giustapposizione di momenti di scrittura lontani nel tempo) e parti di gioco evidentemente tagliate in tutta fretta. Faccio un esempio, perché è piuttosto spettacolare: a un certo punto, dopo la morte di Jen che vi ho anticipato, Tommy decide di farsi finalmente addestrare da Enisi e viaggia quindi nella Terra degli Antichi, il luogo degli Spiriti dove Enisi lo aspetta dopo la morte e dove gli ha svelato i suoi poteri. Enisi mi dice che l’addestramento sarà lungo, mi avverte che sarà difficile, e mi anticipa che dovrò compiere varie prove, una per ognuna delle tribù. Ho pensato che gli sviluppatori avessero voluto dare un po’ di spazio ai puzzle, anche se magari in modo un po’ forzato, togliendo la componente del combattimento, ed ero piuttosto incuriosito da queste prove. Mi dirigo quindi dove Enisi mi ha indicato, ma devo subito tornare indietro: non se ne fa più niente, perché la Terra degli Antichi è attaccata degli alieni che mi hanno seguito ed è l’ora per un interminabile combattimento contro ondate di nemici in una deprimente arena rotonda con qualche ostacolo. In nessun momento successivo si torna a parlare delle prove ed Enisi si allontana durante lo scontro per non farsi più rivedere sino alla fine del gioco perché (parole sue, testuali) “ho da fare da un’altra parte”. Ah, prima di tornare indietro posso almeno conquistare un potenziamento della Salute, un potenziamento della Salute con la forma di pipa cerimoniale.

Sì, il potenziamento della salute ha la forma di pipa cerimoniale. Apparentemente, è una chanunpa lakota. E galleggia. Galleggia in aria. E ruota. Gelleggia e ruota perché è un potenziamento, ed è un “calumet della pace” (come lo chiamano gli Europei) perché io sono un Nativo Americano. Da quanto mi risulta i Cherokee neanche hanno la pipa cerimoniale, ma usano pipe di terracotta solo per fumare in compagnia senza un elemento rituale. Davvero, la scrittura di questo gioco è spazzatura e andando avanti il fatto che si prenda tanto sul serio rende tutto sempre più ridicolo. Esiste persino un’intera sottotrama che viene continuamente richiamata nelle fasi iniziali per poi scomparire misteriosamente e non essere mai più citata: insieme a me sono saliti sulla Sfera degli spiriti maligni che mi seguono e che hanno preso possesso di una bambina.

Prey dovrebbe insegnare a non dimenticare

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Le idee della trama di “Prey” non sono insomma buone quanto le idee del suo gameplay. Anzi: le idee della trama di “Prey” fanno spesso piuttosto schifo, e non scrivo “schifo” perché voglio essere un po’ volgare, perché mi piace usare parole forti, perché sono il critico sopra le righe. Scrivo “schifo” perché mi fa schifo la storia che ho giocato perché è razzista, stupida, mal scritta, sessista, banale, incorente, inconcludente e piena di buchi logici. Ma anche se le idee della trama di “Prey” non sono buone quanto le idee del suo gameplay esse soffrono lo stesso problema di cui soffre il gameplay: ci sono tanti elementi, tante storie, tante trame, tante meccaniche e solo alcune vengono portate sino in fondo mentre altre vengono abbandonate all’improvviso o svolte in modo parziale. È sicuramente un retaggio del difficile e lungo sviluppo del gioco, di un’opera che è cresciuta negli anni e ha preso tante forme e alla fine ha trovato completamento pur pagando per il suo passato. Il fatto che “Prey” sia uscito e sia giocabile e abbia tante idee e tante idee interessanti è stupefacente, perché tanti giochi nelle sue stesse condizioni non escono mai o diventano “Duke Nukem Forever”.

All’epoca prese voti altissimi nelle recensioni, esagerati e immotivati anche in relazione a quello che davvero quegli anni offrivano agli appassionati di sparatutto, ma quello che avrebbero dovuto scrivere i critici nel 2006 era che c’erano tante idee degne di essere portate avanti, di crescere, di comporsi in una visione più coerente che imparasse dalle reazioni (positive all’epoca) del pubblico e dalle reazioni (positive all’epoca) della stampa per uno sparatutto ancora anni 90 ma con puzzle ambientali da risolvere manipolando lo spazio e la gravità. E anche giocandoci oggi, anche dopo lo sparatutto esplorativo e narrativo di “Bioshock” e il puzzle in prima persona di “Portal” e nonostante tutti i suoi difetti, quello che è giusto scrivere è che “Prey” di Human Head Studios non meriterebbe di essere dimenticato come si augura Arkane Studios: meriterebbe un seguito. O magari un reboot: una coppia di ragazzi Cherokee viene rapita e si trova in una gigantesca astronave aliena, in parte meccanica e in parte organica, dove per sopravvivere deve imparare e sfruttare le folli geometrie e la cangiante gravità della struttura e deve riconnettersi al suo passato. Non è un gioco che vorreste giocare anche voi? E se “Prey” è, alla fine, un gioco che racconta l’importanza dell’eredità, del proprio nome, delle proprie origini, essere dimenticato e sostituito è la cosa più orribile che può accadergli.

Prey 2006 Recensione

Prey (2006) – Recensione: In conclusione…

“Prey” (2006) di Human Head Studios non è invecchiato bene, e la verità è che già all’epoca la critica e le sue recensioni furono esageratamente gentili con questo gioco in un periodo in cui lo sparatutto in prima persona ventava già esponenti come “Half-Life 2” e “F.E.A.R.”. In “Prey” sono Tommy, un Cherokee che viene rapito insieme alla sua fidanzata Jen e a suo nonno Enisi e portato su un’astronava aliena, un gigantesco essere viventi bio-meccanico servito da maligni extra-terrestri. L’astronave, seppur divisa in livelli lineari, è piena di meccaniche da esplorare, di pavimenti che mi permettono di camminare sui muri, di tasti che possono cambiare la direzione della forza di gravità, di interi pianeti con il loro proprio centro gravitazionale e di portali. Nessuna di queste meccaniche, così come quelle legate ai poteri Cherokee di Tommy, viene portata davvero sino in fondo, e i puzzle ambientali che “Prey” offre sono semplici e poco creativi. L’anno dopo uscì “Portal”, e mostrò quanto si potesse fare con una sola delle meccaniche presenti anche in “Prey”, quella dei portali. Ma, nonostante i limiti delle sue meccaniche, una pessima Intelligenza Artificiale e una scrittura di qualità tanto bassa da essere offensiva, “Prey” è un interessante incontro tra sparatutto anni 90 e puzzle ambientali basati su geometrie impossibili e manipolazione della gravità. È il tipico gioco che, dopo uno sviluppo travagliato e difficile (durato undici anni), riesce solo in parte ma che meriterebbe un seguito che permettesse agli autori di usare l’esperienza acquisita per andare in nuove direzioni e sfruttare sino in fondo le idee sinora solo accennate. Quello che “Prey” non meriterebbe, invece, è di scomparire dalla memoria collettiva, come si augurano Bethesda e Arkane Studios che ne ha usato il nome per un gioco totalmente diverso. “Prey” di Human Head Studios, 3D Realms e 2K non è attualmente disponibile in versione digitale essendo misteriosamente scomparso anche da Steam, e l’unico modo per recuperarlo è usato in versione fisica per PC o Xbox 360 o attraverso rivenditori di codici.

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