We Are Müesli tra narrazione e interazione – Intervista

Durante il festival Game Happens! 2016 a Genova ho potuto parlare con We Are Müesli, una coppia di “narratori non convenzionali” (ora parte del collettivo videoludico Contralto) alla ricerca di storie da raccontare e di modi per raccontarle attraverso il gioco e l’interazione. Claudia Molinari, che si occupa della parte grafica, e Matteo Pozzi, che si occupa di quella narrativa, vengono dal mondo della comunicazione, ma dal 2011 hanno iniziato a lavorare su narrazioni sperimentali che, nel 2013, li hanno portati al videogioco con “Cave! Cave! Deus Videt”. Erano a Game Happens! per tenere una conferenza intitolata “Reloading History through narrative games” (“Recuperare la Storia con i giochi narrativi”) in cui hanno parlato delle opportunità che la storia moderna e contemporanea offrono alla narrazione interattiva.

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We Are Müesli
I videogiochi di We Are Müesli scavano proprio nella storia di epoche, luoghi e persone, esplorano la Resistenza e gli anni Settanta, Palermo e la via Aurelia, Bosch e la vita nei cortili comuni di Beijing. Le loro opere sono principalmente realizzate con Ren’Py, uno strumento (di cui abbiamo già potuto parlare qui su Webtrek) nato per la creazione di visual novel, racconti a bivi illustrati e interattivi realizzati originariamente in Giappone per il mercato giapponese ma oggi diffusi in tutto il mondo. We Are Müesli forzano le regole e le forme della visual novel, inseriscono animazioni, sostituiscono lo stile da fumetto e animazione giapponesi commerciali che solitamente le caratterizza (lascito della loro origine) con una grafica sintetica e raffinatissima, diversa per ogni opera. DISCLOSURE: Sofia Abatangelo, collaboratrice di Webtrek, è stata allieva di We Are Müesli. Ringrazio Martina per l’aiuto nella sbobinatura dell’intervista.
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“Cave! Cave! Deus Videt” (2013)

“Cave! Cave! Deus Videt” (“Attento! Attento! Dio vede!”) è una visual novel nata per il bando internazionale Bosch Art Game, un progetto di narrazione interattiva sul pittore cinquecentesco Hieronymus Bosch. In gita con la scuola al Museo Nazionale di Lisbona, il diciassettenne Hoodie (“Cappuccio”) si trova a viaggiare forse all’interno del “Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio” di Bosch, forse nell’Olanda del 1499 colpita da una misteriosa epidemia o, forse, semplicemente nella sua mente di adolescente. “Cave! Cave! Deus Videt” è l’esplorazione interattiva di un dipinto, dei suoi significati allegorici e del clima storico in cui è stato realizzato, ed è il primo capitolo di una serie incompiuta (al momento ne esiste solo un Episodio 0). Potete scaricare gratuitamente l’Episodio 0 di “Cave! Cave! Deus Videt” (in inglese e spagnolo) da Game Jolt.

Webtrek: Come avete iniziato, come vi siete conosciuti? Che background avete? Matteo: Ci siamo conosciuti nel 2009, in una agenzia di design a Milano. Era una agenzia di design tradizionale e comunicazione, nulla a che fare con i giochi. In questa agenzia ci siamo conosciuti come art director (Claudia) e copywriter (io, Matteo): la classica coppia creativa da agenzia di comunicazione. Trovandoci a collaborare quotidianamente ci è venuta voglia di mandare avanti anche progetti creativi nostri, personali, indipendenti. Ci siamo imbattuti nei videogiochi un po’ per caso, a fine 2012 (anche se il grosso è avvenuto poi nel 2013), quando abbiamo scoperto l’esistenza di questo contest internazionale, il Bosch Art Game, che aveva come scopo la creazione di un videogioco ispirato alle opere di Hieronymous Bosch, in vista del cinquecentenario della sua morte caduto quest’anno, nel 2016. Non avevamo mai fatto un videogioco in precedenza, ma ci è sembrata curiosa l’idea che ci fosse una fondazione disposta a finanziare un progetto di videogiochi ispirati a un pittore che conoscevamo bene. È stato quasi più Bosch ad attirarci che i videogiochi! Anche se in realtà da un paio d’anni a quella parte mi ero riavvicinato al mondo dei videogiochi, scoprendo il mondo dei videogiochi indipendenti che non conoscevo affatto. Da giocatore, avevo abbandonato i videogiochi all’epoca della generazione della PlayStation 2.

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“The Great Palermo” (2016)

“The Great Palermo” è una ballata interattiva nata durante una residenza artistica, un racconto cumulativo sul cibo da strada di Palermo e sulla storia della città. Ogni giorno il piccolo Gaetano viene mandato dalla madre a comprare le uova al mercato e il bambino, annoiato dal dover ripetere continuamente il solito tragitto, inizia a vagare per la città scoprendo nuovi posti, nuovi cibi e nuove storie. Ogni cibo assaggiato trasforma Gaetano, creando nuove interazioni con il mondo di gioco. “The Great Palermo” è disponibile gratuitamente in inglese e in italiano su PC, Mac e Linuc (su itch.io) e su Android e iOS.

Webtrek: Quali videogiochi ti hanno colpito di più all’epoca? Matteo: Ricordo che tra i primi titoli che mi sono trovato a mostrare a Claudia dicendo “Ehi, forse non sai che ora ci sono videogiochi così” ci sono i titoli di Cactus, che poi ha fatto “Hotline Miami”, ma prima di “Hotline Miami” aveva una produzione di giochi supersperimentali che mi piacevano molto da un punto di vista sia stilistico che di contenuto, molto alla Lynch. Ricordo anche “Knytt Stories” di Nifflas, che ci riporta di nuovo in Svezia. Il gioco su cui ci siamo trovati di più è stato “Thomas Was Alone” di Mike Bithell. Claudia: Ricordo quando me lo hai fatto vedere. La mia esperienza coi videogiochi nasce e finisce con il Commodore 128, perché soffrendo di motion sickness tutto quello che è arrivato dopo è stato per me un grosso trauma; inoltre da piccola avevo grossi problemi nel comprendere la grafica tridimensionale. Era per me un qualcosa di molto alieno e mi faceva stare male fisicamente, come il mal di mare. Così ho smesso completamente di giocare. Quando racconto i miei giochi, sono ancora più retrogame dei retrogame. Ho fatto un salto dal Commodore 128 a “Thomas Was Alone”. Matteo: Ci è capitato di incontrare Mike Bithell un paio di mesi fa ad una conferenza a Spalato ed è stato carino chiudere questo piccolo cerchio confessandogli che un po’ era colpa sua. Claudia: Soprattutto, fino a “Thomas Was Alone” avevo anche grossi problemi a interfacciarmi coi videogiochi in generale perché nasco come graphic designer, con studi molto puristi per quanto riguarda la concezione dell’immagine e della composizione. Vedere il filone di giochi mainstream e non sapere che ci fosse dietro tutto un altro tipo di giochi mi ha allontanato.

Webtrek: È comprensibile, è successo anche a me. Io ho ripreso a giocare con “The Path” dei Tale of Tales, sostanzialmente. Mi ha fatto pensare che forse c’è ancora qualcosa di interessante. Claudia: Infatti. Matteo mi ha mostrato “Thomas Was Alone” e ci ho trovato una grafica a me comprensibile; soprattutto, l’emozione che la geometria può dare attraverso l’utilizzo dello storytelling ha fatto nascere la scintilla che ci ha fatto dire, quando abbiamo visto il bando: “Ehi, perché non proviamo? Tu scrivi di mestiere, sei sceneggiatore, io sono una visual designer, proviamoci.”

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“Venti Mesi” (2016)

“Venti Mesi” è un gioco-documentario, una raccolta di venti storie ispirate a fatti reali e ciascuna ambientata in uno dei venti mesi che Milano vive dall’Armistizio (settembre 1943) alla sua Liberazione (aprile 1945) durante la Seconda Guerra Mondiale. La visual novel, realizzata all’interno del progetto “Oggi, 15 aprile 1945” del comune di Sesto San Giovanni, attraversa con toni grotteschi che sanno mostrare la commedia nella tragedia tutti i possibili punti di vista: vedo l’esercito abbandonato a se stesso, vedo la popolazione civile, i fascisti, i nazisti, i partigiani… Ognuno dei venti episodi è inoltre accompagnato da una delle definizioni contenute nel “Dizionario del partigiano anonimo”, un testo di autore ignoto trovato in Lunigiana da Angelo Del Boca. “Venti Mesi” è disponibile gratuitamente in inglese e italiano per PC e Mac su itch.io e Game Jolt.

Webtrek: E Ren’Py? Come l’avete scoperto? Claudia: Proprio in occasione di questo contest. Non avendo mai fatto videogiochi avevamo bisogno di trovare un tool facile sia a livello di applicativo che a livello di linguaggio che potesse in poco tempo darci la possibilità di trasferire la nostra idea in un videogioco. Webtrek: È il motore ottimale: parte visiva, parte testuale, facilmente unite. Matteo: Già, abbiamo fatto di necessità virtù. Era uno dei modi più semplici a nostra disposizione per combinare la parte di scrittura e la parte visiva, con una componente di programmazione sostenibile anche partendo da zero.

Webtrek: Ora invece su che strumenti siete orientati? Claudia: Ci siamo affezionati a Ren’Py: la nostra fortuna è legata al fatto che, non avendo esperienza ed essendo rimasta così indietro con i videogiochi, non avevo punti riferimento, ho potuto lavorare in maniera molto istintiva. Grazie alla grande pazienza e creatività di Matteo nel riuscire a trasformare delle fantasie in un prototipo giocabile (l’episodio zero di “Cave! Cave! Deus Videt”) abbiamo inserito delle logiche di gioco che prima di quel momento non erano state esplorate. Ma è stata una pura casualità legata al fatto che non avevamo nessun background nel mondo della programmazione dei videogiochi, è stato un colpo di fortuna. Matteo: Altri progetti più piccoli (per modo di dire), anche ora, di recente, come sono stati “Venti Mesi” o “The Great Palermo”, li abbiamo realizzati sempre in Ren’Py anche per mantenere le dimensioni attuali del team: con Ren’Py ci sentiamo sicuri di poter realizzare progetti solo noi due, tranne la parte di musica, per cui collaboriamo con musicisti o sound designer diversi a seconda dei progetti e del mondo della storia stessa.

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“SIHEYU4N”

“SIHEYU4N”, realizzato in collaborazione con Aran Koning per la mostra Brandin Siheyuan (Beijing Design Week 2015), è un videogioco puzzle/azione cooperativo per quattro giocatori che mescola le classiche meccaniche di caduta dei blocchi (alla “Tetris” per intenderci) con l’architettura dei cortili storici di Beijing, i “siheyuan” e la loro vita comunitaria. Nei siheyuan quattro famiglie vivono in quattro case posizionate intorno a uno spazio comune da condividere. L’obiettivo in “SIHEYU4N” è posizionare blocchi colorati (ispirati ai cinque elementi cinesi) nello spazio del colore corretto, ma siccome ogni giocatore controlla una sola area di gioco è necessario scambiare i propri blocchi con gli altri giocatori. Un quinto colore, il giallo, consente di eliminare blocchi già posizionati e correggere quindi gli errori.

Webtrek: Invece “SIHEYU4N”? Matteo: “SIHEYU4N” riflette il fatto che siamo entrati man mano nella comunità di game makers indipendenti. È stato sviluppato in Unity da un nostro amico, Aran Koning, un game maker e programmatore olandese giovanissimo conosciuto due anni fa allo showcase di IndieCade. Noi abbiamo curato la parte di concept, design e visual, e Aran ci ha supportato nello sviluppo. Webtrek: Mostra comunque un’evoluzione, o comunque una voglia di variare molto forte, come si vede dal gameplay. Claudia: C’è stata la voglia di portare lo storytelling “fuori”: il videogioco multiplayer così com’è concepito si basa moltissimo sulle relazioni tra i giocatori e sul fatto che i giocatori devono parlarsi. Il parlarsi, o comunque parlare e condividere, è uno dei nostri valori all’interno dei giochi: che sia dato da uno storytelling non lineare utilizzando Ren’Py, che ti può portare a finali multipli, o che sia dettato dall’utilizzo della comunicazione al di fuori del gioco, resta comunque un ideale che ci accompagna nello sviluppo dei nostri progetti. Matteo: Sì, in questo senso; la voglia di esplorare altre meccaniche, come il local multiplayer, ci è venuta strada facendo. Le esperienze single player, quasi intime come le visual novel sono tutt’ora parte del nostro percorso, ma inevitabilmente la voglia di esplorare altri generi c’è.

Webtrek: C’è stato qualcosa in particolare del local multiplayer che vi ha colpito? Qualche gioco, qualche autore? Claudia: In realtà è stata la risposta ad un’esigenza di un nostro caro amico architetto che vive a Pechino e voleva raccontare questa particolare situazione pechinese: la grande urbanizzazione sta distruggendo i cortili, i siheyuan, presenti a Pechino. Sono rimasti pochissimi cortili, e al loro interno la gente passava il loro tempo in condivisione: si stendevano i panni, si giocava con le tessere, si mangiava, si suonava, eccetera. Poiché presentava un progetto alla Beijing Design Week in cui raccontava l’iperurbanizzazione e questa perdita culturale, ci ha chiesto se avevamo voglia di rinforzare la sua tesi producendo un progetto basato su questo concept. Ci è piaciuta l’idea di questo progetto, ma nel creare questo gioco narrativo dovevamo confrontarci con un pubblico che non parla la nostra lingua e non condivide la nostra cultura: un grosso scoglio linguistico e culturale. E tutti questi problemi li abbiamo presi come opportunità, come ingredienti di una formula creativa. Li abbiamo messi tutti in fila e, vedendo la tavola di ingredienti che potevamo utilizzare, abbiamo pensato che il multiplayer era senza dubbio l’unico modo per veicolare questa relazione. Matteo: Un multiplayer cooperativo: la condivisione è una delle parole chiave dell’exhibition in sé, uno dei concetti da tenere presenti nel momento in cui è stata scelta questa tematica. Claudia: Si vince se si collabora tutti insieme. Matteo: Astratto, senza narrazione diretta, local multiplayer, cooperativo: il concept è venuto quasi da sé.

Webtrek: Sofia l’ha provato e ce l’ha un po’ raccontatoClaudia: Ha una fruizione orizzontale, in cui ciascuno si trova su un lato di un ipotetico cortile virtuale. Da questo cortile ognuno gestisce il proprio lato, formato da tante piccole cornici di colori diversi, e ciascuno gestisce soltanto le tessere di un unico colore. I lati sono formati di tante tessere diverse. Ad esempio, io sono il “protettore” delle tessere blu, però ho bisogno, per costruire il mio perimetro di cortile, anche delle tessere bianche, nere e rosse. Sono “costretta” a chiedere tessere e a condividere le mie. È tutto basato sulla condivisione e lo scambio di informazioni.

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“We’ll Meet Again” (2015)

“We’ll Meet Again” nasce per la Global Game Jam 2015 ed è un puzzle collaborativo in cui due giocatori, su due diversi computer, giocano alle due metà dello stesso gioco (Side A e Side B) senza poter vedere o sentire cosa succede nella versione dell’altro giocatore. Il Side A di “We’ll Meet Again” contiene indizi visivi per le scelte da fare nel Side B, mentre il Side B contiene indizi audio per le scelte da fare nel Side A, quindi i due giocatori sono obbligati a una continua comunicazione, esterna al gioco stesso, per trovare insieme la soluzione degli enigmi. “We’ll Meet Again” è disponibile gratuitamente, in inglese, per PC, Mac e Linux su itch.io e Game Jolt.

Webtrek: È interessante soprattutto il fatto che abbiate deciso di gestire questa pare “fuori dal gioco”: avete avuto dei punti di riferimento per questa idea? Qualche gioco multiplayer che vi è piaciuto usava questo tipo di meccaniche? Matteo: La dinamica del parlarsi al di fuori di quello che succede strettamente sullo schermo è qualcosa a cui avevamo già pensato: esiste un vecchio prototipo realizzato durante la Global Game Jam del 2015, “We’ll meet again” (“Ci incontreremo di nuovo”). Durante la jam abbiamo realizzato questo prototipo in Ren’Py forzando tantissimo i limiti del motore: era un gioco in Ren’Py per due giocatori. Consisteva in due eseguibili diversi avviati su due macchine distinte, una di fronte all’altra, con da un lato una parte di puzzle audio e dall’altro una di puzzle video tra loro interdipendenti. Inevitabilmente questo gioco, “rotto” in due parti, audio e video, divise su due PC diversi, prevede due giocatori che non sanno cosa sta vedendo o sentendo l’altro: l’unica soluzione è parlarsi. Questa idea è nata dal tema della jam, ovvero “What do we do now?”. Da lì è partita una riflessione sul gioco multiplayer, in cui qualcosa avviene sullo schermo ma il senso più compiuto dell’esperienza emerge nelle conversazioni tra giocatori.

Webtrek: È una sperimentazione che ora va avanti in modo piuttosto articolato nell’ambiente: ad esempio “Keep Talking And Nobody Explodes” sfrutta non solo la comunicazione ma anche media diversi, testuale, visuale, comunicativa. Io sono un grande amante di “The Yawhg”, illustrato da Emily Carroll: c’è un arco di tempo predeterminato per i giocatori prima dell’arrivo di una catastrofe che distruggerà la loro città, e ogni giocatore deve gestire i suoi turni per far agire ed evolvere il suo personaggio. Al momento del disastro, inoltre, tutti devono organizzarsi e scegliersi un ruolo per ricostruire la città. È un’esperienza che fanno i giocatori tutti insieme davanti al PC, e si mettono d’accordo comunicando tra loro: non esiste una meccanica nel gioco che gestisca questi scambi. Passa tutto attraverso la comunicazione in compresenza. Ora, invece, si tende a facilitare la comunicazione a lunghissima distanza, come la chat vocale o icone che avviano interazioni tra i giocatori automatiche, incasellate e prestabilite. Matteo: L’idea che abbiamo con Aran, ad esempio, di possibili sviluppi futuri di “SIHEYU4N” è una versione per tablet, in cui i quattro giocatori vanno ad agire tutti e quattro sullo stesso tablet mediante i controlli touch screen. Claudia: Io, invece, preferirei una installazione ad esempio in piazza, in cui le persone devono aiutarsi e farla diventare un’esperienza anche artistica. Il prossimo passo, sicuramente, resta comunque la versione tablet. Matteo: Sì, con un tablet diventa condivisione fisica dello stesso spazio, peraltro ristretto, ed avere otto mani sullo stesso tablet sembra un’idea interessante. Claudia: Mi voglio riallacciare al discorso sugli oggetti fisici portati all’interno del gioco, come in “Keep Talking And Nobody Explodes”, che è un gioco brillante. L’idea di riportare alcuni aspetti del gioco in una dimensione analogica mi affascina tantissimo: arrivo dal mondo della stampa, per me la carta è una cosa preziosa, ho lavorato tantissimo a progetti che poi hanno un output cartaceo. È un ambito che abbiamo cercato di toccare con “We’ll Meet Again”, ma volevamo già affrontarlo in “Cave! Cave! Deus Videt”: all’inizio, una delle ipotetiche piste progettuali era proprio l’utilizzo di qualche libro esistente, o comunque fare in modo di far andare le persone in cerca di qualcosa, invece che mostrare il quadro. Però abbiamo pensato che sarebbe stato un calcare troppo la mano con la volontà e la pazienza delle persone, visto che per giocare a “Cave! Cave! Deus Videt” c’è bisogno di pazienza di per sé. Matteo: Ad esempio, per l’installazione artistica di “We’ll Meet Again”, una possibilità che avevamo in mente era di usare dei vinili veri in corrispondenza dei vinili presenti nel gioco, ciascuno dei quali contiene pezzi di puzzle audio. Una sorta di mixed-media installation, computer e vinili, oggetti che hanno inoltre tutto un loro fascino.

Webtrek: Avete in mente anche degli spazi? Claudia: Beh, sì, abbiamo in mente degli spazi, ma prima di questa domanda viene “Avete in mente dei budget?” Per alcuni progetti purtroppo devi anche fare i conti col fatto che rimarranno soltanto dei prototipi, e devi fare pace con questa cosa e andare avanti. Matteo: È quello che diceva anche Niki Smit questa mattina [durante un’altra conferenza di Game Happens! dedicata a videogiochi con interfacce alternative parte del gioco stesso]: alcuni progetti possono nascere anche in forma assolutamente spontanea, artistica, poi a distanza di anni ritornano in qualche modo sotto forma di commissioni, e si può evolvere un’idea, uno spunto, un prototipo.

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“Wheels of Aurelia” (2016)

We Are Müesli hanno anche realizzato la componente narrativa di “Wheels of Aurelia” di Santa Ragione. Siamo alla fine degli anni Settanta, negli Anni di Piombo, gli anni del terrorismo, dei rapimenti, dei grandi cambiamenti politici e industriali. Due ragazze, Lella e Olga, si fanno compagnia in un viaggio in automobile lungo la via Aurelia, da Roma sino a Ventimiglia e in Francia, in un videogioco isometrico a finali multipli (ben sedici) che mescola gioco di corse (guido effettivamente l’automobile e posso persino finire in una gara automobilistica illegale) e visual novel costruita sul dialogo tra la protagonista, Lella, la compagna di viaggio e gli autostoppisti e i personaggi che incontrano nel percorso. “Wheels of Aurelia” è disponibile, anche in italiano, a €10 per PC, Mac e Linux, su Steam e itch.io e per PlayStation 4.

Webtrek: State lavorando ad altro, oltre “SIHEYU4N”? Claudia: In questo momento [giugno 2016] stiamo lavorando ad un gioco che ci è stato commissionato da una compagnia olandese, “Redesire”, in collaborazione con Pietro Polsinelli, un eccezionale game designer e developer ma anche un cervello meraviglioso in relazione all’applied game. È un gioco applicato che ha come obiettivo interpretare i desideri delle persone che vivono all’interno delle città per trasformare spazi inutilizzati. Matteo: E di nuovo la meccanica è quella del local multiplayer cooperativo. Claudia: Tutto parte dall’interpretazione delle mappe: tutti sappiamo farlo, perché ci sono scritte parole con i nomi delle vie, ma non sappiamo leggere una mappa capendo realmente l’antropologia delle persone che vivono all’interno di quel contesto. Non capiamo come mai un quartiere diventa un quartiere malfamato, o un quartiere ricco. Quali sono le logiche che portano a questa trasformazione all’interno delle città? E questo è un progetto che stiamo mandando avanti sul modello di divisioning delle città di Jane Jacobs, una giornalista e attivista americana, che è stata anche una figura di spicco nelle teorie sullo sviluppo urbano negli anni ’60 e ’70.

Webtrek: È un tema bellissimo, che mi sta molto a cuore. Ormai tutti viviamo in città soggette a trasformazioni continue e un po’ incontrollate, dal punto di vista dell’urbanistica ma soprattutto della comunità e di come queste due componenti interagiscono e si influenzano. Volete dirci altro? Matteo: Io voglio aggiungere che voglio fare un gioco di wrestling. Il wrestling merita più dei giochi usciti finora, che sono belli ma fuori tema. È sbagliato il genere: il wrestling è teatro, non competizione. I picchiaduro si fermano alla superficie del wrestling. Claudia: Si dovrebbero avvicinare di più a una visual novel, o a un rhythm game. E ogni tanto lo vedo che rispulcia questo concept del wrestling.

Webtrek: Concludo con questo aneddoto: tempo fa leggevo un’intervista ai Tale of Tales, in cui dicevano che quando si conobbero si divertivano un sacco a giocare insieme a “Tekken 3”, fingendo che i personaggi non si picchiassero ma stessero facendo l’amore. La trovo una cosa interessantissima, perché sposta l’interazione tra personaggi dall’ambito competitivo all’ambito cooperativo. Stai facendo qualcosa di fisico ma devi rispondere in maniera consona. Claudia: Ci sono sceneggiatori che scrivono copioni per ogni incontro di wrestling. Matteo: C’è improvvisazione ma c’è anche una quota di script. Claudia: Dal punto di vista visuale per me sarebbe il massimo, con tutte quelle maschere e le pitture.

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