Dark Souls 3: se una cosa è troppo difficile la stai facendo male

Ritorno sull’argomento della difficoltà dei videogiochi della serie “Souls” (“Demon’s Souls”, “Dark Souls” e anche il cugino “Bloodborne”) che ho già affrontato nella mia recensione di “Dark Souls 3”. La tesi che sostengo è che la difficoltà dei “Souls” sia stata esagerata, soprattutto a livello pubblicitario e promozionale, a discapito di altre loro caratteristiche: “Dark Souls” diventa il tempio, il club esclusivo, del videogiocatore hardcore, del masochista, di chi desidera essere punito per ogni minimo errore e poter dire, a chi non riesce a superare le difficoltà che il gioco pone, “git gud” (“get good”, “è l’ora di diventare capaci di giocarci”). Questa visione serve a escludere, a far sentire “casual”, incapaci, “non veri giocatori” (“true gamers”) coloro che non partecipano al rituale collettivo di “Dark Souls”, allo stesso tempo scoraggiandoli anche solo a provare a parteciparvi.

official t shirt dark souls 3
L’orribile design ufficiale di magliette e felpe di “Dark Souls 3” sottolinea la difficoltà del gioco in modi esagerati.

Dark Souls 3: Difficoltà, complessità e curiosità

“Dark Souls” può davvero rivelarsi oscuro e complesso: molti dettagli della sua trama sono nascosti nelle descrizioni di oggetti che potrei non trovare mai o nel loro posizionamento e i luoghi (il loro aspetto, i loro nemici, le loro relazioni) raccontano spesso molto di più dei filmati e dei dialoghi. È un’oscurità a cui, nei suoi spigoli più eccessivi, “Dark Souls 3” rinuncia: le gemme con cui potenzio le armi, per esempio, portano scritta chiaramente nella loro descrizione la funzione e le proprietà del potenziamento, e in generale la trama è più chiara e i richiami al “Dark Souls” originale sono piuttosto espliciti. L’oscurità non è in “Dark Souls” un obiettivo dell’autore, di Hidetaka Miyazaki, ma è, come la difficoltà, un mezzo, a volte un effetto collaterale, per incoraggiare l’attenzione, lo scrupolo e la curiosità. “Dark Souls” vuole che io stia attento.

La ripetizione che affronto in caso di morte è, poi, un incoraggiamento a capire, a imparare e a sperimentare. L’esperienza acquisita con le morti precedenti mi permette di affrontare le sfide con consapevolezza, e la possibilità di recuperare le anime perse al momento della morte mi permette di provare senza esagerati timori nuove strategie di fronte a vecchi problemi. A questo proposito, “Dark Souls 3” torna alla varietà di armi del “Dark Souls” originale, con una quantità persino disorientante di equipaggiamenti e combinazioni possibili, aumentando ulteriormente le opzioni a mia disposizione. Come ho scritto nella mia recensione su “Dark Souls 3” questa varietà non è spesso davvero bilanciata e le differenze tra un oggetto e l’altro possono diventare particolarmente sottili (in cosa sono diverse una Spada lunga e una Spada di Astora potenziata con Gemma raffinata?) e a volte si sente la mancanza delle scelte nette e coraggiose di “Bloodborne”, che aveva poche armi ma tutte caratterizzate e diverse tra loro. Queste sottigliezze, questa difficoltà nella scelta dell’arma, servono però a spingermi a provare tutte le sfumature del sistema di combattimento, tutti i suoi gameplay possibili.

Dark Souls 3: Difficoltà e ambientazione

Ma soprattutto se una cosa è troppo difficile nei “Dark Souls” è perché probabilmente la sto facendo male. Perché mi son perso un passaggio, un indizio, un oggetto. In “Dark Souls 3” (eviterò di dare grandi anticipazioni) mi ero bloccato di fronte a due avversari, due personaggi non giocanti con equipaggiamento e abilità uguali a un personaggio giocante (come i Cacciatori non giocanti che si trovano in “Bloodborne”): i loro attacchi corpo-a-corpo, in parte potenziati dalla magia oscura, mi danneggiavano inesorabilmente, e non riuscivo ad affrontarne uno senza attirare l’attenzione dell’altro, cosa che mi avrebbe permesso di schivare con più facilità e di avere più finestre utili per gli attacchi. La soluzione al problema è arrivata esplorando un po’ più attentamente la zona precedente, dove ho trovato un anello capace di difendermi dall’Oscurità, cioè proprio dall’elemento con cui questi due avversari aumentavano il potere delle loro armi.

Nelle Catabombe di Carthus (non vi dirò però dove con precisione) posso a un certo punto incontrare un Demone del Fuoco. Ucciderlo è stato piuttosto impegnativo: il suo alito infuocato non è difficile da evitare, ma per colpirlo (almeno che non usi raffiche di stregonerie e armi a distanza) sono costretto a scendere una scalinata e infilarmi in una piccola arena in cui lo scontro viene complicato dai suoi potenti attacchi corpo-a-corpo e dall’apparizione di guerrieri scheletro. Ma, semplicemente, posso avvicinarmi a uno scrigno vicino e attirare il soffio di fuoco del Demone su di esso, che si rivela essere un Mimic. I Mimic sono, in “Dark Souls”, membri di un popolo un tempo umano corrotto dall’avarizia a trasformato in umanoidi dalla testa di baule che, se attaccati o scambiati per scrigni veri, sono capaci di uccidermi con uno o due colpi. Il Mimic in questo caso però si arrabbia non con me ma col Demone da cui è stato colpito e lo uccide in pochi secondi, liberandomi di un difficile nemico e uscendo dallo scontro abbastanza danneggiato (e distratto) da permettermi di affrontarlo senza grossi problemi. Anche in questo caso, la soluzione era a portata di mano: se il Demone si era rivelato troppo difficile la colpa era solo mia, che non ho dato abbastanza attenzione all’ambiente.

Dark Souls 3: Difficoltà e comunità

E qua si torna a un punto che ho anche stavolta, almeno in parte, affrontato già in sede di recensione: “Dark Souls” non è una sfida solitaria. Se ho bisogno di aiuto posso evocare nel mio mondo il Fantasma bianco di un giocatore e rendere i combattimenti contro i boss particolarmente più facili (a volte, in modo persino un po’ eccessivo) e nel mio cammino incontro gli spettri dei giocatori appena deceduti che ripetono le ultime azioni prima della loro morte, avvisandomi così dei pericoli, e trovo i loro messaggi. Anche se a volte alcuni dei messaggi sono lasciati per ingannarmi, come il tipico “Salta” posto di fronte a un precipizio senza fondo, spesso quello che ho di fronte è uno sforzo collettivo verso la risoluzione della complessità del mondo dei “Dark Souls” e dei suoi segreti. È grazie al soccorso dei messaggi degli altri giocatori che scopro pareti illusorie che scompaiono appena colpite, linee delle storie dei personaggi non giocanti e tranelli come i Mimic.

Mi capita di dire che i “Dark Souls” siano i veri eredi dei primi due “The Legend of Zelda”, giochi che hanno effettivamente ben poco in comune con i successivi capitoli della loro serie. Il primo “The Legend of Zelda”, soprattutto, ha una serie di notevoli somiglianze col primo “Dark Souls”: mi trovo in un mondo decaduto e ormai quasi disabitato di cui so pochissimo e che esploro liberamente e sperimento personalmente, scoprendo il percorso da compiere tentativo dopo tentativo. Ma il “The Legend of Zelda” originale è davvero una sfida solitaria, ed era ancora più solitaria quando le guide erano rare, internet mi era sconosciuto e l’unico aiuto era la mappa del mondo scrupolosamente disegnata dalla sorella della mia migliore amica. I “Souls” e “Bloodborne” sono invece una sfida collettiva che si prolunga negli anni: in essi, ancora di più che nel primo “The Legend of Zelda”, “it’s dangerous to go alone”.

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