Voodoo è un survival ambientato in un’Africa stereotipata e banale [AGGIORNATO]

Voodoo è un videogioco survival ambientato in un’Africa primitiva, dove il divino e il terreno non sono chiaramente divisi e l’umanità è sull’orlo della civiltà” scrive lo studio italiano Brain in the Box sul sito ufficiale del gioco. “Voodoo è un videogioco survival ambientato in un’Africa primitiva e fantasy dove diventerai uno dei fondatori della civiltà” recita la descrizione del video di gameplay preparato per il Gamescom 2016.

Voodoo. Un parco divertimenti a tema Africa

Sono affermazioni un po’ vaghe, che non definiscono i confini temporali e geografici dell’Africa immaginata da Brain in the Box. Cosa si intende per “Africa primitiva” (nel testo originario “primivite Africa” e “primal Africa”)? Come fa l’Africa primitiva di “Voodoo”, ispirata alle tradizioni Masai (una popolazione dell’Africa orientale) e Zulu (una popolazione dell’Africa meridionale), a convivere con l’inizio della civiltà (“civilization” nel testo originale), una forma di organizzazione che comprende l’urbanizzazione, la stratificazione sociale e la scrittura e che è nata in Egitto?

La risposta è, in realtà, semplice: “Voodoo” rappresenta l’Africa come un unico mischione di stereotipi, luoghi ed epoche, senza preoccuparsi di come tutto ciò possa convivere in modo coerente. La mappa stessa del gioco non è altro che un puzzle costruito da tutti gli elementi normalmente collegati ai concetti astratti di “Africa” e “primitivo”: c’è il deserto, c’è la savana, c’è il vulcano, c’è la giungla con pure gli eucalipti, piante tipiche dell’Oceania… La geografia e la storia dell’Africa son trattate non come ambientazioni, magari da arricchire con elementi fantastici ispirati alle mitologie locali, ma come scatola da cui prendere elementi riconoscibili in Occidente (le maschere, la savana vista nei documentari…), elementi mischiabili a piacere e con cui creare un parco di divertimenti a tema “Africa” pensato dall’uomo bianco per l’uomo bianco. Non stupisce che gli autori di Brain in the Box, pur volendo parlare di Africa, siano tutti bianchi (e maschi e, apparentemente, tutti impiegati sui lati tecnici del gioco, senza nessuno che si occupi di gestire in maniera specifica narrazione e game design).

Les Demoiselles d'Avignon Picasso Voodoo
“Les Demoiselles d’Avignon” di Pablo Picasso – Museum of Modern Art, New York, PD-US, https://en.wikipedia.org/w/index.php?curid=547064

Guardate come sono rappresentati i personaggi giocabili: gobbi, ferini, simili a scimmie dai peni enormi e dai volti deformati con grandi labbra rosse secondo la rappresentazione razzista resa famosa dai cartoni animati anni 30. E i loro costumi non rappresentano alcuna ipotetica “Africa primitiva”, ma sono ispirati a quelli trovati da missionari ed esploratori nel XVIII secolo. Volendo andare ancora più a fondo, l’intera rappresentazione rispetta il modo in cui un occidentale, un europeo vissuto dopo il Rinascimento, può vedere l’Africa: modelli tridimensionali e poligonali inseriti in una perfetta e fittizia rappresentazione prospettica. Eppure quando l’arte africana ha incontrato quella europea a inizio del Novecento il suo effetto fu dirompente, fu capace di aprire gli orizzonti del Cubismo, del Fauvismo, dell’Espressionismo. E oggi eccola normalizzata e riportata nella gabbia prospettica rinascimentale, addomesticata ai nostri gusti e ai nostri mercati videoludici.

Non pone meno problemi il titolo del gioco, “Voodoo”, che confonde il Vodun dell’Africa Occidentale, un insieme di credenze internamente vario e complesso, con il Vudù (“Voodoo”) di New Orleans, una tradizione nata tra gli schiavi a seguito della Diaspora Africana e del mescolamento della tradizioni africane (il Vodun, appunto) con quelle cattoliche (e in generale con quelle europee) e, a volte, con quelle dei nativi americani. L’Africa di “Voodoo” è un’Africa fantasy nel senso che è un’Africa che non è mai esistita se non nelle fantasie dei colonialisti, è l’Africa semplificata e compressa di chi la guarda dall’esterno, tutta insieme, confondendola pure con altri continenti. L’Africa di “Voodoo” è un’ambientazione che nasce dalla somma di tutti i suoi stereotipi.

[AGGIORNAMENTO 24/2/2018] Francesco Toniolo, dottorando di ricerca presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, obietta alla netta distinzione da me fatta tra Voodoo e Vodun spiegando che, fermo restando la differenza tra i culti haitiani e quelli africani, le due grafie possono trovarsi entrambe usate per identificare proprio i culti africani (come in Il vodu in Africa Metamorfosi di un culto di Alessandra Brivio , Possession Ecstasy and Law in Ewe Voodoo di Rosental e Voodoo in Africa and the United States di Golden), e sottolineando che anche l’uso di “voodoo” per il culto haitiano sia stato spinto soprattutto dall’uso cinematografico che ha evidenziato i tratti orrorifici (come gli zombi). “Vodu, vodun, voodoo sono varianti di trascrizione del termine africano, con il quale, nelle lingue fon, nel Dahomey e nel Togo, si designa un dio, uno spirito, un oggetto carico di potere numinoso. ” (A.M. di Nola, voce Vodu in AA.VV., enciclopedia delle religioni, vol VI).

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Voodoo. Il survival incontra Shadow of the Colossus in una fantasia colonialista

“Voodoo” si incaglierà nell’Accesso Anticipato di Steam, insieme a decine di altri survival multiplayer con crafting, a marzo 2017, forse riuscendo a distinguersi dai simili per le influenze dei Soulsborne, da cui prende il sistema di combattimento, e di “Shadow of the Colossus”, da cui prende i Colossi, qui chiamati Izimu (gli “orchi” Zulu), enormi nemici da scalare e sconfiggere stavolta in gruppo. Una idea che trovo anche interessante e che si sarebbe meritata un contesto più studiato e, forse, meno ambizioso.

Quando non si ha esperienza, come non la hanno (ancora) i ragazzi di Brain in the Box, la cosa migliore è parlare di qualcosa che si conosce bene, magari di qualcosa a cui si tiene particolarmente. Bisogna essere molto appassionati di Africa, insomma, per parlarne, e bisogna essere molto attenti quando si saccheggia una cultura altrui, una cultura che l’Occidente e l’Italia hanno già lungamente saccheggiato metaforicamente e letteralmente. Ci vuole rispetto, umiltà. Ci vuole timore di sbagliare.

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Avevo inizialmente deciso di non parlare di questo gioco (il tempo è poco ed è a volte meglio dedicarlo a cose più importanti dell’ennesimo survival) ma recentemente ho visto una certa attenzione, anche da parte di una testata nazionale evidentemente non preparata a confrontarsi con la materia, e ho deciso che fosse necessario scrivere questo articolo e spiegare (ma non sono il primo a farlo) perché è oggi inaccettabile trovarsi di fronte ancora a opere in cui persone nere coi labbroni corrono nude o mascherate nella savana facendo Vudù. Certo, è forse difficile dirlo in uno Stato dove, nel silenzio generale, esistono ancora pubblicità in cui il ruolo del nero lo fa un bianco scurito da abbronzatura e trucco. Ma Brain in the Box prendano invece d’esempio “Shadow of the Colossus”, uno dei loro riferimenti nella creazione di “Voodoo”: vedano come Ueda ha tratto ispirazione dalle mitologie dell’America Centrale per creare il suo mondo e i suoi colossi, sviluppando a partire da quelli spunti un universo unico, originale e misterioso. “Voodoo” è un pessimo biglietto da visita per una realtà che sta muovendo i suoi primi passi “sull’orlo della civiltà”.

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