Resident Evil 7 Biohazard – Recensione

Il primo “Resident Evil” che ho giocato da cima a fondo è stato “Resident Evil 4” (2005), nel suo terribile port su PC del 2007. Il fatto che abbia deciso di completare (e più di una volta) quel gioco nonostante la versione per computer fosse realizzata tanto malamente è un riconoscimento alla sua qualità, una qualità che tuttora spicca in mezzo all’intera serie, ed eppure già all’epoca “Resident Evil” era mutato, aveva preso altre strade rispetto alla sua formula originaria, alla cauta e terrificante esplorazione della casa del primo “Resident Evil” (1996) di Shinji Mikami, della città di “Resident Evil 2″ (1998) di Hideki Kimiya. La mutazione, come ho spiegato parlando della demo di “Resident Evil 7: Biohazard” (“Resident Evil 7: Beginning Hour”) avvenne con “Resident Evil 3: Nemesis” (1999), quando il level design della serie smise di creare luoghi da esplorare e iniziò a creare luoghi da attraversare il più rapidamente possibile, e “Resident Evil 4” si limitò a spingerla ancora più in là, come in seguito fecero “Resident Evil 5” (2009), ormai semplicemente uno sparatutto coop, e il bombastico “Resident Evil 6” (2012).

Resident Evil 7 Biohazard – Recensione: Ritorno a La casa

Resident Evil 7 Biohazard recensione

“Resident Evil 7: Biohazard” torna indietro, torna all’idea con cui erano nati il primo “Resident Evil” e il gioco da cui prende spunto, “Sweet Home” per Nintendo Entertainment System, un videogioco di ruolo in stile giapponese con enigmi ambientali da avventura grafica uscito nel 1989 e creato da Tokuro Fujiwara, colui che sarà poi il produttore del “Resident Evil” del 1996. Lo spunto iniziale di “Sweet Home” e “Resident Evil” è fondamentalmente lo stesso: i protagonisti sono chiusi in una casa che devono esplorare e capire per sfuggire agli orrori che nasconde e che sono destinati a scoprire. Ed è da questo spunto che parte anche “Resident Evil 7: Biohazard”, in cui il protagonista Ethan Winters deve esplorare i molti edifici della piantagione della famiglia Baker, in Louisiana, dove la moglie gli ha chiesto di raggiungerlo dopo essere misteriosamente scomparsa per tre anni. La casa dei Baker non è una mappa veramente unica e aperta ma è una serie di aree al loro interno comunque esplorabili in modi anche non lineari, aprendone un pezzetto alla volta e con la necessità o la possibilità di tornare indietro per sfruttare nuovi oggetti in parti già percorse per svelarne ulteriori segreti, e la sensazione è sempre quella di star scoprendo un luogo, non di star andando da un punto A a un punto B attraversandolo.

Per la prima volta (almeno per quanto riguarda la serie principale dei “Resident Evil”) questa esplorazione avviene con una visuale in prima persona e non in terza. Il cambiamento esemplifica perfettamente il ragionamento che Capcom ha compiuto per ogni aspetto di “Resident Evil 7: Biohazard”, lo sforzo della compagnia di riproporre il tono e il sapore che “Resident Evil” aveva venti anni fa con la tecnologia odierna e nella scena attuale del videogioco horror. Il primo “Resident Evil” (e così tutti i capitoli principali sino a “Resident Evil 4”) ha sfondi statici su cui i personaggi tridimensionali si muovono, inquadrature fisse, storte e spesso scomode che mi rendono impossibile capire al primo colpo d’occhio l’aspetto delle stanze e, a volte, la posizione dei nemici. All’epoca l’uso di sfondi statici e pre-renderizzati era dovuto a limiti tecnici, ma Capcom riuscì a sfruttare in “Resident Evil” questo limite tecnico (insieme alla rozzezza dei controlli) come elemento horror nello stesso modo in cui Konami avrebbe trasformato i limiti tecnici della PlayStation nella nebbia di “Silent Hill”. Quando in “Resident Evil 4” la telecamera si è spostata dietro le spalle del personaggio, quando è stato possibile muovere liberamente l’inquadratura, qualcosa è andato perso e la prima persona serve proprio a restituire quella sensazione di ignoto, quella parzialità dello sguardo.

Resident Evil 7 Biohazard recensione

“Resident Evil 7: Biohazard” è poi a volte estremamente buio, una caratteristica che sembra comune negli horror ma che non lo è all’interno della serie “Resident Evil”. E l’oscurità delle sue stanze, dei suoi sotterranei e della sua notte contribuisce a ridurre ulteriormente la visione, a disorientarmi e a costringermi ad avvicinarmi per scoprire i dettagli. Certo, l’oscurità di “Resident Evil 7: Biohazard” serve spesso anche a nascondere i limiti tecnici del motore di gioco (l’RE Engine), limiti evidenti nelle scene diurne iniziali e negli spazi aperti ma poi nascosti per quasi tutto il resto dell’avventura dal buio e dalla qualità complessiva della caratterizzazione degli ambienti. La piantagione dei Baker può ricordare la villa degli Spencer di “Resident Evil” (1996) per dimensione e struttura, ma è lontana dal luso asettico di quei luoghi: è un luogo vissuto, abitato e marcito e le sue stanze non sono particolarmente ricche di oggetti interattivi ma sono comunque piene di storie e di storia, di avanzi di cibo, di note, lettere e diari che raccontano pezzo per pezzo la vita della famiglia Baker e gli eventi che fanno da sfondo alla trama.

Resident Evil 7 Biohazard – Recensione: La famiglia Baker

La storia di “Resident Evil 7: Biohazard” rompe con la complessa continuity creata negli anni dalla serie, dalle cospirazioni della malvagia corporazione Umbrella e dalle conseguenze dei suoi esperimenti per la creazione di armi non convenzionali. Non si tratta di un reboot, perché “Resident Evil 7: Biohazard” è ambientato dopo “Resident Evil 6” e gli eventi accaduti nella piantagione dei Baker sono in qualche modo collegati a ciò che i fan di lunga data hanno affrontato per anni nella serie, ma se non avete mai giocato un “Resident Evil” non avrete alcun problema a gustarvi la trama centrale di “Resident Evil 7: Biohazard”, un gioco che anche un fan comunque fatica a inserire correttamente nella serie.

Resident Evil 7 Biohazard recensione

Poi quella di “Resident Evil 7: Biohazard” è finalmente una storia interessante, ricca di colpi di scena e cattivi memorabili. Il protagonista Ethan Winters, doppiato in italiano da Renato Novara (che io continuo a ricollegare a Ted, protagonista di “How I Met Your Mother”), si distanzia nettamente dai poliziotti e dai soldati dei precedenti “Resident Evil” ed è uno dei più riusciti uomini qualunque che io abbia mai incontrato in un videogioco. Ogni suo commento rispecchia il commento che ho fatto pochi secondi prima, ogni suo “che schifo”, ogni sua imprecazione, ogni suo spavento vanno di pari passo con un mio “che schifo”, una mia imprecazione, un mio spavento e la sua evoluzione come personaggio, da sventurato marito a eroe deciso a cancellare dal mondo gli orrori che ha incontrato, segue l’evoluzione della mia consapevolezza e della mia competenza come giocatore. Ma il più grande successo di “Resident Evil 7: Biohazard” sono i suoi cattivi, i membri della un tempo tranquilla famiglia Baker, ora trasformata in una stirpe di cannibali immortali.

È soprattutto grazie ai Baker che “Resident Evil 7: Biohazard” ripropone non solo l’esplorazione del primo “Resident Evil” ma anche quel suo umorismo grottesco che avvicina “Resident Evil 7: Biohazard” al tono de “La casa” (1981) di Sam Raimi e soprattutto all’eccezionale remake del 2013, realizzato da Fede Alvarez. A un certo punto mi trovo a dover fuggire dalla madre della famiglia Baker, Marguerite. Mi nascondo evitando la luce della sua lanterna mentre cammina per i corridoi, aspetto che si sia allontanata per entrare nella prossima stanza, ma ella mi ha già visto e sa che sono qui. “Dove sei, succhiacazzi?” urla mentre scappo in salvo all’esterno. Ecco, questo è il tono spesso esagerato sino al ridicolo dei Baker in “Resident Evil 7: Biohazard”.

Resident Evil 7 Biohazard – Recensione: Tra impotenza e potenza

Resident Evil 7 Biohazard recensione

I momenti in cui sono inseguito da uno dei Baker, da un nemico apparentemente invincibile che mi costringe alla fuga, ricordano chiaramente la lezione di “Amnesia: The Dark Descent”, i precedenti “Penumbra” e tutti i loro emuli (tra cui “Alien: Isolation”). Ma “Resident Evil 7: Biohazard” non abbraccia totalmente il senso di impotenza che questi giochi mi dà e, anzi, gode nell’altalenarmi tra una sensazione di fragilità e una sensazione di sicurezza alternando la minaccia dei Baker a nemici affrontabili con tre o quattro colpi di pistola, dandomi le armi per combattere contro gli orrori che incontro ma limitando munzioni e, in generale, risorse e costringendomi a gestire un inventario dallo spazio limitato. Anche tornare in una parte già esplorata della casa, dove ho già ucciso tutti i nemici e dove dovrei sentirmi al sicuro, può rivelare nuove insidie inaspettate. Alla fine del gioco mi trovo ad attraversare l’unica area davvero lineare di “Resident Evil 7: Biohazard”, ormai pieno di munizioni (e con un lanciagranate) e deciso più che mai a farmi strada tra i tanti mostri che mi vengono messi davanti, e anche questo momento non va inteso come una deriva finale verso lo sparatutto ma come parte dell’attento ritmo del gioco che bilancia così i suoi momenti precedenti, momenti in cui sono stato costretto a tornare montaneamente alla completa impotenza. E la trasformazione stessa dell’ambiente di “Resident Evil 7: Biohazard” dal labirinto della sua parte centrale alla diritta strada di quella finale mi pare, più che una debolezza del level design, quasi un elemento narrativo necessario, un richiamo alla determinazione finale del protagonista, al suo non essere più un uomo perso in misteri che non sa capire e in fuga da orrori che non sa combattere.

Proprio i combattimenti nascondono due dei maggiori difetti di “Resident Evil 7: Biohazard”: la scarsità di tipi di nemici e la scarsa qualità degli scontri contro i boss. I nemici che incontro più spesso non sono i membri della famiglia Baker, ma creature più facili da uccidere, mostri neri dotati di artigli e zanne e già incrociati nella cantina di “Resident Evil 7: Beginning Hour”. La maggior parte di questi nemici è solo carne da cannone senza alcuna storia alle spalle e la loro varietà si limita a quattro versioni dal design piuttosto anonimo: c’è una versione base, una versione con un enorme braccio artigliato e una maggiore resistenza (simile a un classico Tyrant della serie), una versione quadrupede veloce ma fragile (simile a un Licker) e una grossa e grassa versione che ricorda un Boomer di “Left 4 Dead” (vomita per attaccare ed esplode quando viene ucciso). In questo mi dispiace che “Resident Evil 7: Biohazard” abbia continuato sulla strada dei capitoli più recenti della serie, sempre alla ricerca di qualcosa in più del semplice zombi, ma abbia rinunciato alla varietà di minacce già presenti nel primo episodio del 1996, quando agli zombi normali si aggiungevano comunque i celebri cani zombi, squali zombi, corvi, piante carnivore, serpenti e ragni giganti e ibridi uomo-rettile mutanti.

Resident Evil 7 Biohazard recensione

Gli scontri con i boss sono invece da sempre uno dei grandi punti deboli dei “Resident Evil”, e da sempre consistono in un problematico misto di sparatorie contro punti deboli, uso dell’ambiente a mio vantaggio e Quick Time Event. I Quick Time Event sono assenti in “Resident Evil 7: Biohazard”, o almeno sono stati ridotti a una forma tanto dinamica e intuitiva da non poter essere più considerati cutscene con tasti da pigiare all’improvviso, ma per il resto i boss del gioco rispettano la formula della serie e sono spugne capaci di assorbire decine e decine di proiettili ed attacchi di ogni genere senza a volte neanche reagire ai colpi. Ed è un peccato, perché nel resto di “Resident Evil 7: Biohazard” i corpi (quello di Ethan e quelli dei nemici) sembrano veri: sanguinano, subiscono il rinculo delle armi, vengono amputati dai proiettili e spinti indietro dagli attacchi. Come dicevo parlando di “Resident Evil 7: Beginning Hour” in questo gioco c’è una vera ricerca della fisicità (e anche questo mi ricorda il lavoro di Raimi e poi di Fede Alvarez su “La casa”), un voler continuamente richiamare senzazioni concrete e tattili, un voler continuamente ricordarmi che, dietro l’inquadratura, c’è un corpo vivo e sanguinante. In parte questa scelta è sicuramente dovuta al supporto per la Realtà Virtuale, in quanto “Resident Evil 7: Biohazard” è completamente giocabile con il PlayStation VR su PlayStation 4.

Resident Evil 7 Biohazard – Recensione: Il ritorno dei puzzle

Allo spirito del “Resident Evil” originale tornano anche i puzzle che incontro e di cui l’abitazione dei Baker è disseminata. Ci sono semplici chiavi da recuperare, chiavi molto meno semplici da costruire unendo pezzi di effigi, piccoli enigmi e segreti da scoprire. Mentre i veri segreti del gioco sono ben nascosti e necessitano di parecchia capacità di osservazione e di un’accurata esplorazione degli ambienti, i puzzle della trama principale non sono particolarmente interessanti e vari, al punto che un tipo di enigma è riproposto almeno quattro volte durante “Resident Evil 7: Biohazard”, e due di queste quattro volte è esattamente identico, senza alcuna variante. Mi sembrano poco sfruttate anche le VHS, elemento già presente in “Resident Evil 7: Beginning Hour” e che poteva diventare parte di puzzle molto più interessanti in “Resident Evil 7: Biohazard”. Mentre gioco posso trovare delle videocassette e guardarle assumendo il controllo e il punto di vista di chi all’epoca fece le riprese. Nella demo era possibile, per esempio, sfruttare questa possibilità di agire nel passato per aprire un cassetto che nel presente io avrei sennò trovato chiuso, ma questa opportunità non viene purtroppo portata avanti e le VHS si limitano a mostrarmi ambientazioni che ancora devo affrontare in modo che io possa poi evitare minacce che già conosco. In un caso questo dà vita a un puzzle interessante inserito in un puzzle ulteriormente interessante, ma per il resto le VHS sono un’occasione persa.

Resident Evil 7 Biohazard recensione

E se la difficoltà generale di “Resident Evil 7: Biohazard” (non solo quella dei puzzle) può rivelarsi troppo bassa, sappiate che dopo averlo finito in modalità Casa degli orrori (Normale) sbloccherete la modalità Manicomio (Difficile), con nemici più potenti e più duri da abbattere, meno risorse, oggetti disposti in modo diverso e il ritorno dei salvataggi limitati: come nel “Resident Evil” originale nella difficoltà Manicomio di “Resident Evil 7: Bioharzard” non posso salvare quante volte voglio ai punti di salvataggio (dei mangianastri), ma per farlo devo usare un oggetto consumabile (un’audiocassetta in questo caso). Anche a difficoltà Manicomio restano i salvataggi automatici dei checkpoint in aggiunta a questo sistema di salvataggio manuale, ma se cercate una sfida, se cercate la pressione e la disperazione dei survival, “Resident Evil 7: Biohazard” saprò accontentarvi. Così come in “Resident Evil 7: Biohazard” troverete quello che cercate se, semplicemente, amate essere spaventati da storie dell’orrore ben scritte ed esplorare luoghi in cui non vorreste mai capitare, ma in cui non vedrete l’ora di tornare. Un esempio positivo che molte compagnie dovrebbero studiare per capire come è possibile mantenere una serie viva rispettandone non le forme e le tradizioni, ma i contenuti e lo spirito.

Resident Evil 7 Biohazard – Recensione: In conclusione…

“Resident Evil 7: Biohazard” ha un obiettivo preciso: riproporre con la tecnologia attuale e nel panorama attuale del videogioco horror, dopo “Amnesia: The Dark Descent” e “Outlast”, il sapore, il tono, l’esplorazione, i puzzle e il combattimento del “Resident Evil” originale del 1996. Per riuscirci cambia forma, passa alla visuale in prima persona in modo da restituire lo sguardo costretto degli sfondi pre-renderizzati dell’inizio della serie, e mi rinchiude di nuovo in un ambiente, in una casa, da esplorare. Nonostante puzzle non molto riusciti, poca varietà nei nemici e sfiancanti scontri contro i boss (con i problemi che i fan della serie conoscono) “Resident Evil 7: Biohazard” riesce a creare un’esperienza survival memorabile, paurosa e dotata del tono inconfondibile dei primi episodi di “Resident Evil”, con un umorismo grottesco, antagonisti memorabili e un continuo alternare momenti di fragilità e impotenza a momenti di (solitamente falsa) sicurezza. Dura circa dieci ore, una lunghezza alla fine giusta che permette a “Resident Evil 7: Biohazard” di non perdere mai freschezza e ritmo con parti troppo diluite o meno interessanti ma che lascia la voglia di averne ancora, di approfondire e di giocare i prossimi DLC solo per poter tornare nella sua storia e nelle sue atmosfere. “Resident Evil 7: Biohazard” di Capcom è già disponibile su PC, Xbox One e PlayStation 4 (con supporto per PlayStation VR).

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